Non ricordo di aver mai amato il Carnevale. Per lo meno non tanto quanto ho amato il Natale. Da bambina era il pretesto per qualche vacanza scolastica, per assaggiare i fatti fritti di mia nonna, o le chiacchiere, o quei deliziosi ravioli alla pasta di mandorle, e per sperare in qualche pentolaccia fortunata, ma no, la festa in se non mi ha mai regalato emozioni profonde, ataviche reminiscenze.
Strano, perché i sardi e la Sardegna in egual modo amano il Carnevale, fa parte di questa terra come ne fanno parte le pietre, gli olivastri, gli asfodeli, il maestrale ed il mare. E’ la città ad avermi privato forse, di quell’istintivo attaccamento ad una festa antica, lontana, di cui si è già detto tutto senza d’altronde spiegare niente con certezza.
Non ricordo di aver mai amato il Carnevale, quello che mi imponeva di vestire i panni di fatina, di diavoletta, di contadinella, ma il Carnevale, quello sardo, fatto di fuochi, di maschere e di campane che suonano… quello era inevitabile che mi facesse innamorare. Era solo questione di tempo, il tempo che serve a due sconosciuti per fare amicizia.
Trovo che la sua essenza sia la maschera ed il suono. L’una permette di vestire i panni della divinità, racconta una storia, trasfigura l’essenza di chi l’indossa regalandogli un potere che mai più avrà durante l’anno, l’altra allontana… cosa? I fumi negativi, gli impiccioni e gli insistenti liberando i giorni che verranno dai fastidi.
Sul Carnevale quel che si sa per certo è che non si tratti di una festa collegata alla liturgia cattolica, anche se appiccicosa come un parassita, questa abbia provato a dare significati cristiani alle evoluzioni pagane. Mi rincuora poter dire che non ci sia riuscita. Il carnevale si respira ancora oggi come qualcosa di compromettente, di poco cristiano, di segreto e rituale, che ha fatto arrabbiare non poco vescovi e preti.
Altra certezza è la sua data d’inizio, per lo meno sull’isola: i giochi si aprono tra il 16 ed il 17 gennaio in concomitanza con i festeggiamenti per il tanto amato e rispettato Sant’Antonio Abate, il Prometeo sardo che secondo la tradizione, concesse alla terra gelata l’elemento di cui ancora non si aveva conoscenza: il fuoco. Non è un caso d’altronde che venga festeggiato a suon di fuochi e danze.
E ora veniamo alle teorie d’altri; quelle più accreditate smentiscono il volto trasgressivo del Carnevale, tutto teso ad invertire i ruoli e consentire comportamenti trasgressivi. Il Carnevale rappresenterebbe piuttosto un periodo luttuoso e tragico, un periodo di atavica lotta dell’uomo contro la natura, che sa dimostrarsi quando vuole crudele e scostante. Fra le moltissime rappresentazioni poste in atto sull’isola, pare che la componente determinante e mai assente sia quella agropastorale, e che i festeggiamenti altro non siano se non l’antica rappresentazione della lotta fra l’uomo ed il male che prende forma di carestia e di siccità. Per esorcizzarlo entrerebbe in gioco appunto il Carnevale con il quale si inoltrerebbe alla divinità la richiesta di pioggia e attraverso il quale si onorerebbe la vegetazione che ogni anno muore e rinasce. Ottima spiegazione che giustifica la permanenza di rituali così antichi: la siccità è da sempre una costante, non solo per l’isola, esattamente come l’imprevedibilità della natura e la necessità di controllarla.
Non manca chi nel rituale ritrova l’antico concetto di morte e di rinascita teso alla commemorazione di un Dio che arrivò anticamente in Sardegna, forse nel XIV – XV secolo a.C. e che mai la abbandonò, Dioniso. Ritrovare il mito del dio in Sardegna non dovrebbe sorprendere, visto che si tratta di una divinità ben nota presso tutte le realtà agropastorali mediterranee. Le stesse maschere, cosi come il loro modo di muoversi e danzare ricondurrebbe gli antichi riti dionisiaci. Queste sono infatti vestite di pelli, cariche di campanacci e ossi animali ( il cui valore di rinascita e potere è ben noto nella tradizione sarda), con il viso annerito dal sughero bruciato, o con indosso maschere scure. Mimerebbero la cattura e la morte di Dioniso, alla quale seguirà l’immancabile rinascita. Addirittura il loro muoversi, trascinato e zoppicante, potrebbe far pensare al tipico modo di avanzare nei riti dionisiaci. Da ricordare inoltre che le maschere/vittime catturate, rappresentano esattamente quegli animali che erano sacri a Dioniso, ossia il toro, il cervo e il cinghiale. La morte del Dio viene pianta tristemente da figure vestite a lutto in quanto la sua morte causerà l’assenza di fertilità della terra, fin alla sua rinascita.
E ora parliamo dell’etimologia del nome Carnevale che dovrebbe anch’essa ricordare i riti in onore del Dio fanciullo, se si accetta di vedere in Carrasecare -> carre de secare -> carne da smembrare. Pare infatti che i seguaci di Dioniso lacerassero capretti vivi, a riproporre la medesima morte del Dio, smembrato dai Titani. Altra teoria vede in Carnevale -> Carne levare, che richiamerebbe in verità l’uso in Quaresima di non consumare carne.
Il mio carnevale quest’anno si aprirà con gli affascinanti Boes e Merdules di Ottana, forse il carnevale sardo che più degli altri mantiene viva il significato agropastorale latente in tutti i festeggiamenti isolani. Le celebrazioni sono ricche di personaggi e di situazioni caratteristiche della vita nei campi: l’aratura, la semina, il raccolto, la domatura, la malattia e morte degli animali.
I merdules hanno il difficile compito di rappresentare i contadini, vestiti di mastrucche, e coperti in viso da maschere lignee deformi, che regalano l’idea dello sforzo e della fatica. Procedono ricurvi e portano sulle spalle sa “taschedda”, uno zaino di pelle, ideale contenitore per del cibo. Trattengono con la socca (redini di cuoio) i boes e per domarli utilizzano un caratteristico bastone.
Sos boes indossano invece pelli di pecora e trasportano campanacci in lamiera e bronzo. Sono trattenuti dalle redini dei merdules il loro viso è coperto da sas caratzas, ossia maschere in legno intagliato con sembianze bovine datate di corna più o meno lunghe. Procedono facendo particolare rumore con i loro campanacci e ribellandosi costantemente creando un notevole scompiglio.
Pur facendo parte del Carnevale di Ottana, le maschere de sos porcos, e sos molentes, su cherbu e su crappolu (il capriolo) , sono decisamente meno comuni.
Impossibile infine non notare sa filonzana che segue claudicante lo sciame di buoi e contadini. La tradizione vuole che disponga della vita di ciascuno che potrà essere interrotta con un semplice tagli del filo arrotolato nel fuso che sempre porta con se. L’ideale è di non farla arrabbiare.
Infine si potranno ammirare le mascaras serias, uomini e donne vestite di stracci, abiti vecchi, lenzuola, che saltellanti danzano e rappresentano lo spirito goliardico della cerimonia.
L’elemento agropastorale di cui abbiamo accennato, nel carnevale di Ottana convive pacificamente con quello dionisiaco, del dio che muore e rinasce a primavera risvegliando la terra e la vegetazione.
Resta solo una cosa da fare: parteciparvi!
Fonti:
Marchi R. Le maschere barbaricine. Disponibile su http://www.mamoiada.net
Carnevale di Ottana. Disponibile su http://www.sardegnacultura.it/grandieventi/carnevale/ottana.html
Turchi D. Il carnevale sardo – su carrasecare. Disponibile su http://www.mamoiada.net/ILCarnevaleSardo%5B1%5D.pdf