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Caro Obama, Israele ringrazia.

Creato il 30 maggio 2011 da Prospettivainternazionale

I. Ripensare il Nord Africa e reinventare il Medio Oriente. Nel contesto di un discorso di tale portata il Presidente degli Stati Uniti il 18 maggio 2011 aveva auspicato un ritorno di Israele entro i confini del 1967.

Circa una settimana dopo però all'AIPAC, nella tana del leone, Obama ha corretto il tiro nell'intenzione di rassicurare Israele circa le intenzioni della sua amministrazione: le parti, israeliani e palestinesi, devono impegnarsi a negoziare un confine che può essere diverso da quello del'67, la pace non può essere imposta.

Ovviamente i due discorsi vanno valutati alla luce dei rispettivi contesti.

Il primo è un bel discorso di marca idealista tenuto al cospetto di diplomatici americani, elargito ad uso e consumo dell'opinione pubblica statunitense, imbastito per cavalcare l'onda di entusiasmo generata dall'idea che gli Stati Uniti sono determinati a giocare un ruolo importante alla guida dei processi di cambiamento (reali o presunti) che sono in atto e che muteranno i lineamenti del panorama internazionale. Yeah!.

Il secondo invece è un discorso tenuto al cospetto di quella che, con un bilancio di circa 80 milioni di dollari, rappresenta la più importante lobby filoisraeliana degli Stati Uniti. Politicamente parlando non c'è niente di strano nelle ambiguità di Obama: se avesse mantenuto all'AIPAC la stessa linea tenuta una settimana prima dinanzi al suo entourage avrebbe praticamente messo un piede nella fossa in vista delle presidenziali 2012, palesando finalmente al mondo intero (e in particolare al mondo del cinema) che un delitto perfetto richiede parametri di ricorsività e una buona dose d'ingenuità.

L'America dunque non ha intenzione di partecipare all' "imposizione della pace" tra israeliani e palestinesi. Questa affermazione messa in certi termini potrebbe addirittura sembrare un naturale prolungamento dell'approccio dell'amministrazione Obama secondo cui in Nord Africa e in Medio Oriente la democrazia non può essere imposta ma deve essere sollecitata qualora si manifestino istanze di cambiamento. Niente di più inappropriato.

Dal discorso tenuto all'AIPAC si evince che Israele può dormire sonni tranquilli: affermando che i palestinesi devono avere diritto ad un loro Stato e che la via per il raggiungimento di questo obbiettivo passa attraverso una negoziazione tra le parti in causa, Obama ha praticamente sgravato Israele dal peso psicologico derivante dall'aspettativa di possibili ingerenze statunitensi a favore della causa palestinese. Nelle parole di Obama "azioni simboliche volte ad isolare Israele alle Nazioni Unite non creeranno uno Stato indipendente[...] gli sforzi volti a delegittimare Israele falliranno"

Tradotto in termini operativi Obama ha praticamente fornito una rassicurazione in merito alla linea che gli USA adotteranno a settembre in occasione della richiesta di riconoscimento dello Stato sovrano che i palestinesi avanzeranno in seno all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Più in generale Obama pare abbia comunicato che gli USA continueranno ad utilizzare il loro potere di veto nel Consiglio di Sicurezza a favore di Israele (come hanno fatto in ultimo a febbraio, sorprendendo alcuni, in merito alla risoluzione di condanna delle attività di insediamento).

II. Se in Nord Africa e in altri paesi mediorientali gli Stati Uniti attendono che le istanze di cambiamento si manifestino per poi decidere eventualmente di appoggiarle, in Israele-Palestina il gioco è diverso. Nessuna azione unilaterale palestinese, come il ricorso alle organizzazioni internazionali, sarà presa in seria considerazione, saranno ritenute istanze di cambiamento solo gli sforzi bilaterali e gli impegni tra le parti volti alla costituzione dei famigerati due Stati.

Per capire in che misura questo atteggiamento statunitense sia a favore dello status quo in Israele-Palestina ricordiamo brevemente solo alcuni dei problemi (che le parti dovrebbero affrontare e risolvere) insiti in tale formula .

In primo luogo bisognerebbe sciogliere il nodo della sovranità. I palestinesi ovviamente aspirano ad avere uno Stato sovrano nel senso pieno del termine mentre i leader israeliani anche accettando la terminologia dei due Stati immaginano una sovranità di serie C: uno Stato palestinese economicamente (e idricamente) indipendente con un suo esercito ed il controllo dei suoi confini? Ma siamo pazzi!? In merito alla definizione della sovranità e del significato dell'espressione "due Stati" si ricordi cosa avvenne al summit di Taba nel 2001.

Quanto alla definizione dei confini i palestinesi non accetteranno variazioni significative rispetto alla linea del '67. Demarcazione che Israele non potrà mai accettare dato che significherebbe smantellare tutti gli insediamenti presenti sul territorio di questo fantomatico Stato palestinese.

I due Stati saranno secolari? Come potrebbero mai accordarsi le parti in merito? Israele avendo a disposizione un posto verso cui sfrattare i palestinesi che attualmente vivono entro i confini dello Stato ebraico potrebbe finalmente coronare il suo sogno e, liberandosi di quella "anomalia" costituita dai suoi cittadini di serie b, divenire uno Stato ebraico al 100%. Oltre al fatto che questo milione e mezzo di cittadini israeliani potrebbero non voler abbandonare le proprie case e che il problema concerne la più complicata questione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, uno Stato israeliano che afferma il suo diritto ad essere al 100% ebraico potrebbe mai accettare uno Stato palestinese e mettiamo musulmano?

Caro Obama, Israele ringrazia.

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