Caro Scrittore in Erba

Creato il 01 novembre 2011 da Gianpaolotorres

Caro Scrittore in Erba…

Caro Scrittore in Erba,
siediti e stai calmo.
Sono le prime due cose che ti tocca fare, se vuoi scrivere. Può sembrare la più banale delle affermazioni, l’uovo di Colombo, ma le regole del gioco, e del resto il gioco stesso, impongono di compiere senza piagnistei questi due semplici gesti. Dunque procedi, caro Scrittore in Erba: siediti, ripeto, e stai calmo.
Bravo, così. Perfetto. Era tanto difficile?
D’ora innanzi, sei liberissimo di scrivere quello che ti pare e (perfino) dove ti pare. Scerbanenco scriveva al bar, Tolstoj pare amasse prendere appunti, e addirittura buttar giù intere pagine, nel chiasso dei mercati. Fabio Stassi, un autore contemporaneo, scrive a bordo dei treni su cui è costretto a spostarsi, suppongo per lavoro. Qualora fosse un pendolare a sua volta, Fabio Stassi, e quindi utilizzasse abitualmente le apposite corse destinate ai medesimi, non garantirei né sul fatto che scriva da seduto, dato il sovraffollamento nelle carrozze, né che mantenga i nervi saldi a fronte di problematiche quali i numerosi quanto spesso inesplicabili ritardi dei mezzi, i guasti all’impianto di climatizzazione, l’ascella prepotente e sincera del vicino, gli afrori assortiti provenienti dai piedi scalzi delle prostitute a bivacco sui sedili. Luoghi comuni da viaggiatore occasionale a parte, la sua sarà comunque l’eccezione che conferma la regola.
Pertanto, caro Scrittore in Erba, tu che partecipi a ogni presentazione libraria senza seguire nemmeno un singolo concetto fra quelli argomentati da chiunque sia stato chiamato a discettare di libri e di scrittura, tu che non vedi l’ora si giunga al termine dell’incontro per avvicinare lo scrittore ospite, tu che senza dubbio chiederai allo scrittore ospite come si faccia a pubblicare un benedetto libro, sappi: un libro non lo si pubblica, un libro lo si scrive. E per scrivere un libro è indispensabile sedersi. Praticare qualche piccolo, preliminare esercizio di respirazione, magari.
La pagina bianca esige il tuo rispetto, amico mio, e se non glielo concedi sai quanto gliene frega di restare bianca a vita.
Caro Scrittore in Erba, lo so. Avresti preferito io ti dicessi che lo scrivere è una specie di stato di grazia, un bacio mistico, una missione, un travaglio, un parto, uno struggimento, una dolcissima pena, una condanna meravigliosa, una malattia incurabile, un privilegio, una sublimazione, la quintessenza di ciò che intimamente siamo, un modo come un altro per fare soldi, un modo come un altro per fare breccia nel cuore della tua Beatrice e finalmente trombarla, un modo come un altro per dire al mondo “ciao, mondo, adesso ci sono anch’io”, un modo come un altro per sentirti rispondere dal mondo “ciao, idiota, guarda che avremmo continuato a dormire beati e sereni nell’ignoranza di te per il resto della nostra pur miserabile esistenza terrena”.
È bene tu sappia da subito che se la tua opinione sulla scrittura creativa corrisponde a una delle descrizioni qui elencate, o ad analoghe amenità che per pietà tua, mia e di chiunque possa mai imbattersi in queste righe eviterò di enunciare, sei sulla strada sbagliata.
Non prenderla male, non è il caso di decidere quale finestra di casa tua presenti le caratteristiche ottimali perché tu dica addio a questa triste valle di lacrime. Fossi in te, lasciatelo dire, sarei un tantino più delicato e accorto con quel rasoio, potresti tagliarti le vene sul serio e, beh, sarebbe un peccato. Nonostante le tue ferree convinzioni a senso unico, dentro di te una storia scalpita dalla voglia di venire raccontata.
A proposito, caro Scrittore in Erba, giacché siamo caduti sull’argomento, parliamone: ce l’hai, dentro di te, una storia da raccontare?…
Ce l’hai o no?
…Ci avrei scommesso.
Se ora t’invitassi a bere un caffè, te la sentiresti di raccontarmela? Sì?…
Potevo scommettere due volte di fila – e vincere due volte di fila.
Caro Scrittore in Erba, il caffè te lo offro volentieri, ci mancherebbe, ma sul fatto che tu abbia abboccato all’amo e sei indi per cui del parere che una storia da scrivere in un libro si possa riassumere oralmente, mi vedo di nuovo costretto a infierire contro il tuo povero fianco scoperto: le storie nei libri, è soltanto nei libri che vanno interrogate.
Se davvero presumi di poterlo scrivere tu, un libro, se ti sei seduto, se ti sei abbastanza calmato e se le dita hanno iniziato a battere sulla tastiera, continua, amico mio, non fermarti, maledizione, e soprattutto non pensare neppure per un attimo che valga la pena di parlarne finché non hai finito. Ti sorprenderà ammettere per allora che non hai utilizzato affatto vocaboli e costruzioni lessicali consoni a una delirante chiacchierata da artista incompreso. La storia che credevi tua è diventata altra da te. Hai potuto controllarne gli eventi, curarne la forma, cancellare brani e stralci di vita dei protagonisti. Riscrivere, riscrivere, riscrivere, riscrivere, riscrivere. Penosamente riscrivere. Il dilemma è rimasto tuttavia immutato: quella storia non è più tua.
È il compromesso che la scrittura ti chiede di accettare. È la pillola senza quel poco di zucchero. Una storia scritta smette di appartenerci nell’istante stesso in cui prende forma sulla carta, e avanza, e cresce, pagina per pagina, nella magica progressione pari e dispari che il programma del tuo pc imposta in automatico.
Ecco “come si pubblicano i libri”, caro Scrittore in Erba. Si scrivono, si finiscono e… sorpresa: si fanno leggere.
Stephen King sostiene sia fondamentale, per un autore, disporre di un ristretto parco-lettori. Ristretto, bada bene. Ad averne troppi il romanzo potrebbe perdere tono, rischierebbe qua e là di zoppicare in termini di convinzione, di appeal narrativo. Il testo, a quel punto della corsa, ne uscirebbe appesantito e l’autore alle prime armi, per accontentare un po’ tutti, finirebbe col rimetterci mano a spizzichi e bocconi, perdendo di vista i principali obiettivi che si era prefissato.
Alla ricetta del Maestro, che mi vede pienamente concorde, aggiungerei una mia personale rettifica: lettori pochi, sì, ma dissociati. Hai un amico, avido consumatore di thriller mozzafiato? Quello è il lettore ideale per i tuoi romanzi d’amore. Una tua zia pensionata si spazzola bancali di harmony e ne discute per ore con le sue compagne di uncinetto? Siine orgoglioso: in famiglia annoveri la miglior lettrice del pianeta, per quanto concerne i tuoi horror. A un amante del genere storico, caro Scrittore in Erba, risparmiamogli di sorbirsi in anteprima mondiale la nostra ricostruzione dei fatti sulla vita e sulla morte di Giovanna D’Arco, per cortesia, a meno che a costui non sia stata richiesta una particolare competenza. Ma, anche in questa circostanza, la domanda che dovremmo porci a monte è: per quale motivo aspettarsi una “particolare competenza” da un semplice appassionato di libri ad argomento storico, quando esistono i professionisti? Il mondo narrativo da te proposto ti sembra pieno di falle: benissimo, prima che la nave affondi rivolgiti a un ricercatore in materia, saprà ben in quali parti è necessario intervenire ulteriormente. Prega solo che la sua parcella tenga conto dei tuoi vergini entusiasmi.
Caro Scrittore in Erba, porta pazienza. Avrei preferito eccitarti con filosofie letterarie da bar della domenica, sarei di certo riuscito a illuderti che tutto l’ostinato amore che provi verso la scritta parola saprà ripagarti, potevo tranquillamente indurti a confidare che il tuo libro sarà per sempre.
Avrei mentito sapendo di mentire.
Le filosofie letterarie, permettimi, lasciamole agli avvinazzati dalla penna facile e dal gomito facilissimo, non ci si può prestare fede da sobri; la maggior parte dei contratti offerti dagli editori indipendenti non prevedono riconoscimenti economici agli autori e quelli gestiti invece dai grandi gruppi non pensare che corrispondano somme decenti, o paritarie agli sforzi affrontati nel portare a compimento l’opera; infine, oggigiorno nessun libro è per sempre, ahinoi, la distribuzione di solito ritira i volumi dalle librerie ad appena due, quattro o sei mesi dall’uscita, salvo rare eccezioni. Questo è quanto, amico mio.
Nell’accingermi a salutarti, e nella speranza che a Beatrice almeno un colpo o due glielo darai lo stesso, libro o non libro, ti faccio un’unica raccomandazione: ricordati che scrivere è un mestiere. Ed è un mestiere artigianale, uno di quelli da rubare con gli occhi.
Il futuro fabbro, attuale bocia del titolare d’impresa che l’ha assunto part-time e lo fa sgobbare il doppio delle ore, divora con lo sguardo i gesti del dannato padrone, mentre medita una vertenza sindacale a seguito dell’ennesima busta paga tardiva. Il futuro falegname, a parità di condizioni, svuota la mente dai propositi omicidi con cui trasformerebbe il proprio datore di lavoro in una graziosa coppia di comodini in stile veneziano, e ammira rapito il modo corretto di segare una tavola di tek, o la tecnica con cui s’intarsia il ciliegio alfine di ricavarne la testiera di un letto matrimoniale. Il futuro meccanico, regolarmente assunto con uno straccio di contratto di collaborazione privo di qualsiasi diritto operaio, quando non è distratto dall’impulso di affettare la faccia del suo capo nella ventola accesa di un radiatore, oltre agli occhi apre le orecchie. Contributi o no, da lui ha imparato che la voce di un motore bisogna saperla anzitutto ascoltare.
Caro Scrittore in Erba, tu, piuttosto, oh eterno bocia, dammi retta: apprendi l’arte di leggere con le orecchie e di ascoltare con gli occhi. È un consiglio da amico, il solo che mi senta di darti. A te interpretarlo.
Anche le storie sono motori, sai?, motori che rombano e possiedono una voce precisa. In un caso, la tua. Una voce ancora fragile come un bicchiere di cristallo, forse, ma posso assicurarti che se quel bicchiere lo sfiori nei punti giusti scoprirai che suona. E non immagini quanto bene possa farlo.
Perciò buon lavoro, caro Scrittore in Erba. E a presto leggerti.

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