Caroline, che non ha mai visto i 30, e i confini sicuri della Daphne della nostra quotidianità

Creato il 01 marzo 2014 da Juana Romandini @drawy82

E’ proprio vero: a volte basta un attimo.
L’attimo che guardi a destra invece che a sinistra, l’attimo che metti il piede in fallo mentre scendi le scale, l’attimo che il vecchietto di turno decide di uscire dal parcheggio proprio mentre passi in moto tu.
Chi o che cosa decide perché ci sia un epilogo piuttosto che un altro, dopo tali attimi, non si sa. E’ uno dei pochi punti su cui credenti e atei sono concordi.

“Le coincidenze esistono, ma sono giunto a credere che in realtà siano rare. C’è qualcosa all’opera, OK? Da qualche parte nell’universo, o al di là di esso, un grande marchingegno ticchetta e fa girare i suoi mirabolanti ingranaggi. Ogni tanto, dal mazzo, salta fuori una carta imprevista, ma quasi tutte le cose sono quel che devono essere”

Stephen King, 22.11.63

E’ questione di un attimo, quindi, e tutto quello che sei stato e hai fatto e stavi pianificando di fare nella tua vita viene cancellato insieme ad essa. Cancellato da un passo di troppo, da un rosso pedonale non rispettato, da uno scooter da cui vieni disarcionato, da una diagnosi tirata fuori da una cartella clinica uguale alle altre. L’epilogo non siamo noi a sceglierlo. Se, pero’, l’oggi diventa domani perche’ questo epilogo e’ buono, ti viene da pensare. Pensare a come quell’attimo che lo ha preceduto ha cambiato tutto, pur avendoti lasciato qui. Capisci come tu corra tutto il santo giorno, ma senza mai fermarti a pensare a quello che davvero hai fatto o hai vissuto nella tua giornata. Ore, mesi, anni persi ad inseguire obiettivi sbagliati, ad intestardirsi su cose che, palesemente, non ingranavano, a stare dietro a persone che bisognava invece lasciarsi alle spalle. Fossilizzarsi su essi, nonostante il nostro stesso mancato successo fosse di per se’ un chiaro invito a lasciar perdere.

“La vita e’ un lancio di monetina”, dice ancora Stephen King in 22.11.63.

E’ solo dopo il fatidico attimo e il suo fatidico epilogo che ti rendi conto di come, spesso, hai solo perso tempo. E il tempo e’ una delle poche cose che non possiamo comprare, ne’ estendere, ne’ riportare indietro. Ogni giorno passato e’ un giorno che non tornera’. Un passo avanti lungo il sentiero che abbiamo dispiegato davanti a noi e la cui lunghezza ci verra’ rivelata solo nel momento in cui saremo arrivati alla sua fine. E se vi saremo arrivati camminando con la testa rivolta verso cio’ che avevamo alle nostre spalle, ci renderemo conto con amarezza di non aver vissuto affatto. Di non aver nemmeno, quando potevamo, recuperato cio’ che di buono c’era da recuperare da ieri per usarlo oggi, troppo occupati come eravamo a capire i nostri errori e perche’ li abbiamo commessi e perche’ non potevamo lasciarli dove erano.

Caroline è un nome su un foglio scritto a mano e appiccicato con dello scotch sul muro fuori dalla stazione di Shudehill. E’ a malapena visibile, in mezzo ai mazzi di fiori. Come la lettera, anche i fiori sono stati attaccati al muro col nastro adesivo. A fare da cornice a questa serra sospesa nel cemento, due striscioni: 30th birthday e Birthday Girl. E un biglietto, firmato dalle sue migliori amiche.

Non si sa quando sia morta Caroline o come sia morta. Nella lettera ci sono solo la sua data di nascita – 26 Febbraio 1984 – e la data in cui avrebbe compiuto i fatidici trenta, il 26 Febbrario di quest’anno. Soltanto, Caroline a 30 non ci è mai arrivata. Facile intuire perché, visto l’incrocio in cui e’ stato tirato su il memoriale. E in certi casi non importa capire come è successo, se era sobria, se era ubriaca, se stava bene o se stava male: l’epilogo e’ quello. Se ne è andata.

Quando si parla dell’investimento di un pedone, ha molte più probabilità di rimanerci secca una persona sobria piuttosto che una persona ubriaca. La persona ubriaca vacilla, sbanda e le macchine, vedendola, rallentano, si tengono alla larga. La persona sobria, invece, si butta. Attraversa spedita, sbucando dal nulla, tra due macchine in coda o dal davanti di un autobus, come ha fatto questo genio della sottoscritta. Non si pensa a guardare bene, prima di lanciarsi, concentrati come si è sul punto d’arrivo, su dove si sta andando o su quanto tempo abbiamo ancora prima di arrivarci. Ci si dimentica che, spesso, per un attimo fatale rischieremmo di non arrivarci affatto, ovunque stiamo andando. Neppure in ritardo.
È il rumore dei freni o del clacson o la vista del muso di un’Audi A4 che inchioda a pochi centimetri dal tuo ginocchio a ricordartelo. È la sensazione di vuoto e di risucchio che ti si spalanca nello stomaco alla vista dei fari che, in una frazione di secondo diventata infinita, ti fa chiedere cosa sta per succederti. Poi la macchina frena in tempo (cum insulti et strombazzata di clacson), tu ti accorgi di averla scampata un’altra volta e a quel punto, al sicuro dall’altra parte della strada, continui a camminare verso dove stavi andando. Un po’ piu’ lentamente, e con il respiro che poco a poco ti torna regolare. E intanto pensi. Pensi parecchio. Pensi a tante cose. Pensi che il tipo di vita che fai, sempre cosi’ di corsa per i motivi più stupidi o per le limitazioni dettate dalla città, logora dentro. Ti porta, semplicemente, a continuare a correre, a volte senza nemmeno farti chiedere perche’ stai correndo o dove stai andando, se vuoi davvero andarci o se, piuttosto, ci stai andando solo perché devi.
E se quell’attimo si fosse concluso con una frenata un po’ più lunga, non avresti avuto occasione di chiederti neppure quello. Come è successo a Caroline.
Certe volte siamo talmente risucchiati nella nostra quotidianità da perdere di vista i nostri veri obiettivi. Ci adagiamo nella culla sicura della routine e smettiamo, per pigrizia o per sfinimento, di cercare, di scoprire, di fare ciò che ci rende vivi: avere aspirazioni, sogni, degli scopi.

Molti di noi non ci stanno a chiudersi in una realta’ troppo stretta, o semplicemente a restarci e combattere per avere poco in cambio, così partono, con una valigia piena del minimo indispensabile per sopravviere e molte speranze. Per alcuni esse si esaudiscono. Per altri no. Alcuni rischiano, continuano a crederci a dispetto di tutto (spesso aiutati dai soldi di mamma e papa’). Altri non trovano quello che speravano o volevano, ma trovano ugualmente il loro equilibrio e si adattano e li’ restano. La sicurezza di uno stipendio e delle abitudini si radica un po piu’ in profondità al passare di ogni giorno. Senza che ce se ne renda conto, ci si sveglia la mattina con l’ancora della nostra nave che è affondata qualche millimetro piu’ giu’ sul fondale della staticita’, inchiodandoci qualche millimentro in più nel posto in cui siamo, dove non avevamo previsto di essere o avremmo voluto essere eppure siamo per via della sicurezza che ci da’ la vita non voluta che ci siamo ritagliati.
Quando penso a tutto questo, mi torna in mente il protagonista de L’Isola del Giorno Prima di Umberto Eco, Roberto de La Grive, un naufrago che resta confinato per sua scelta su una nave abbandonata perche’ troppo terrorizzato al pensiero di lasciarla e di nuotare verso l’isola che vede dal ponte di prua (segue spolier). Poi un giorno, dopo settimane di solitudine e deliri che hanno compromesso la sua salute mentale, Roberto decide che basta, nell’epilogo del romanzo immaginario da lui scritto in preda al delirio ha finalmente trovato una ragione valida per lasciare la Daphne, e cosi’ si immerge in acqua, nuota fin dove la corda lo fa arrivare, la molla e si avventura in mare aperto. Cosa ne e’ stato di lui a quel punto, nessuno lo sa.
Ecco, a volte ho la sensazione che la vita che conduciamo sia la Daphne, con la sua corda a tribordo che non vogliamo mollare e che ci tiene legati ad essa, impedendoci di fluttuare via in mare aperto. Eppure nella vita bisogna rischiare, se si vuole provare ad ottenere qualcosa o, come Roberto, finiremo per rimanere inchiodati finché campiamo entro i confini di una nave su cui non abbiamo scelto di essere e su cui siamo finiti trascinati dalle correnti, una nave a cui ci siamo adattati per sopravvivere e che è diventata parte di noi e della nostra routine, fino a darci sicurezza. È il nostro bisogno di sentirci sicuri a tagliarci le gambe, spesso, ad uccidere l’effettivo raggiungimento dei nostri obiettivi e il conseguimento dei nostri sogni. Perciò a volte si’, dobbiamo rischiare, lasciare quella corda che ci tiene legati alla nave e nuotare in mare aperto. Potremmo perderci e rimpiangere di aver lasciato quei ponti sicuri, oppure potremmo finire alla deriva e toccare nuove spiagge che, fino a quel momento, ci eravamo limitati a guardare da lontano.
Cosa ci riserverà la terra ferma sarà tutto da scoprire, ma noi, dopo tanto tempo, forse cominceremo davvero a vivere.

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