Ho riflettuto sul post di ieri e devo dire che non c'è solo il portafoglio e la certezza della pena per rendere più civili le persone. A volte basta anche un insegnamento come si deve. Io, che ne ho vissuto uno sulla mia pelle, posso confermare che spesso funziona egregiamente. Facevo la prima elementare ed ero un graziosissimo bimbo paffuto e birichino (eheheheh), almeno così amo pensare. La maestra Fracchia era l'archetipo di tutte le maestre, rigida come un palo, sempre vestita di tutto punto e severissima. Ci teneva molto alla bella calligrafia e ancora conservo un suo biglietto di felicitazioni che mi mandò quando le mandai le mie partecipazioni di matrimonio (allora si usava così). Una scrittura perfetta e con gli svolazzi in cui immagini lo scorrere veloce di un pennino d'oro sulla carta spessa e leggermente crespata. Doveva essere davvero un piacere scrivere in quel mondo lontano.
Va beh, sto divagando, in realtà la scuola di allora, dove facevo le mie regolari pagine di puntini e di aste, nella sostanza non era poi così diversa dalla scuola di oggi, checché se ne dicano i vari anziani lamentosi e orfani del buon tempo antico. La brava maestra cercava di insegnarci a scrivere, leggere e far di conto e possibilmente anche un po' di buona educazione. Finita la mattinata, la classe smaniosa di uscire sulla piazza dove un drappello di madri aspettava ansiosa, non aveva licenza di uscire allo sbando, di corsa e con le urla furiose a cui i pargoli anelavano, ma veniva ordinatamente disposta in fila per due fuori dalla classe, giungeva al passo sulla gradinata dell'uscita e dopo un controllo finale, cartelle alla mano, per vedere se tutto era in ordine, la maestra dava l'atteso rompete le righe che preludeva la corsa verso le genitrici. Quel giorno avevo mangiucchiato all'ultimo momento una caramella alla liquerizia, di cui il vicino di banco ricco, che ne aveva sempre abbondante scorta, mi aveva, per simpatia, beneficiato.
La succhiavo così beato che mi ero trattenuto distrattamente in mano la carta appallottolata, di cui avvertii la ingombrante presenza, solo quando ormai eravamo disposti in bell'ordine sulla scala dell'uscita. Prima che la maestra, impettita, ci desse il saluto, con mossa che ritenevo di grande destrezza, lanciai la pallottola di carta verso l'esterno della mia fila. Uno sguardo di brace mi trapassò da parte a parte, tra l'incredulo e l'inorridito. Prima ancora di sentire la sentenza avevo capito il mio tragico ed irreparabile errore. Di fronte al capannello di genitrici attonite che, mi parve avessero addirittura smesso il consueto chiacchiericcio, la voce gelida e ferma mi latrò: -Raccogli subito quella cartaccia- mentre un dito indice, puntato inesorabilmente verso di me, mi condannava senza appello. Avrei voluto sprofondare per sempre nell'oblio dell'Ade. Nel terribile silenzio che ne seguì, uscii dalla fila, rosso come un peperone a cancellare la traccia della mia malefatta. Non mi ricordo, nel resto della mia vita di aver subito una umiliazione più forte. Ho cancellato dalla memoria il resto della giornata, perchè il nostro io interiore è clemente con sé stesso; le ferite guariscono, ma le cicatrici, quando ci passi sopra il dito sembrano, misteriosamente bruciare ancora. Non sono mai più riuscito a buttare un pezzo di carta per terra.
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