“Cartoline dai morti” di Franco Arminio: intervento di Salvatore D’ Angelo

Creato il 18 dicembre 2010 da Viadellebelledonne

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Intervento di presentazione del libro ” Cartoline dai morti” di Franco Arminio all’Auditorium del Casale di Teverolaccio in Succivo:

La cifra stilistica del libro è quella della massima sottrazione per la massima espressione, per una forma estremamente semplice, asciutta al massimo, ma che è il frutto di un lungo, estenuato lavoro di lima; un libro di folgoranti piani sequenza dove ciascun personaggio dichiara il proprio esistere nell’attimo in cui dissolve.

Nell’ora fatale ciascuno mostra la ferita della propria esistenza, in un tragico, grottesco oppure drammatico e anche comico e surreale susseguirsi di microstorie suggerite in una frase, una parola, con umori, situazioni e motivazioni che danno vita – è il caso di dire – ai 128 morti che formano questo antiromanzo in progress, scarnificato dalle strutture, ridotte a orpelli altrove.

L’ antiromanzo epigrammatico di una nuova Spoon River. Una Spoon River che non ha il desolato rimpianto del testo di Lee Masters, ma l’asciutta evidenza delle istantanee e un humor nero appena rattenuto, il segno d’uno scrittore che, rispetto a “Circo dell’Ipocondria”, ha fatto passi da gigante nel progetto di dar vita artistica ai fantasmi della propria ipocondria.

Recensendolo per il Sole 24 Ore , Domenico Scarpa ha detto cose molto centrate su questo piccolo grande libro, soprattutto sull’invenzione o – se si vuole- sul rilancio di una forma lapidaria e di grande espressività; ancor più necessaria al tempo di internet e della comunicazione veloce.

Ma sta qui la differenza: la forma di scrittura è lapidaria ma non veloce, almeno nel senso che comunemente si dà alla parola, perché queste “microstorie” dal dopomorte incidono nell’immaginario di chi legge e vi ristanno, prendendo il loro tempo, in quanto si ha il sospetto che i morti che narrano del modo in cui hanno lasciato la vita, in realtà stanno raccontando altro; rivelandosi sul bianco della pagina, dicono del “Paese dei Morti, che comincia poco oltre le nostre città. Così i casi della vita, gli innumerevoli destini, scorrono sotto i nostri occhi, con accenti che vanno, seppur nella brevità e concisione, dal tragico al comico, dal sarcastico al malinconico, dal patetico al depressivo” come ha notato Marco Belpoliti sull’Espresso, che acutamente definisce Franco Arminio “poeta del nostro sconcerto quotidiano, poeta in prosa del nostro affondamento progressivo.”

Infatti, la sequenza di questi 128 modi di morire, cartoline da un al di qua che ancora appartiene alle ombre che prendono forma nell’attimo in cui stanno per dissolvere, segnalano l’insignificanza e la preziosità della vita, che andrebbe tenuta in ben altra considerazione.

Come fa notare Livio Borriello sul blog letterario Il Primo amore “L’evento della morte in sé non consiste in nulla, se non in uno dei milioni di insignificanti spostamenti elettrochimici di cui è fatta la vita, un flusso elettrico che si ingorga e scola fuori dal corpo, una crepa nel cuore che in sé non differisce dalle discontinuità della mucosa nel corso di una normale digestione, o da un taglietto sul dito, il millimetrico spostamento dallo spazio della coscienza alla voragine abissale che sta un’unghia sotto. Ed è questo il dramma per il vivo, perché se la morte è questo, qualcosa che fa parte della vita, dell’affaticarsi delle cose, un segmento infinitesimo del loro incessante turbinio, essa è indifferente e incurante. “Prima di me, erano morte ottanta miliardi di persone” – dice un’altra delle salme che scrivono. Dunque, c’è poco da farla lunga, anche il nostro finire sarà solo routine.”

Per quanto il tono sia leggero – e il libricino un breviario di auto epitaffi che si leggono col sorriso sulle labbra – le motivazioni e l’intento dell’autore sono tutt’ altro che frivoli.

Anche se scrive per esorcizzare la propria morte (“Pure io, sì pure io” si legge nella cartolina di chiusura ) l’autore “ci porta proprio al cospetto dell’enigma, a fissare con occhi sgomenti e con un po’ di fiatone, il buco nero, la materia cava, il niente che non è neanche quel niente. Ci porta su un punto che sporge fuori dal linguaggio, ad affacciarci sul nulla”, sottolinea ancora una volta Livio Borriello “non c’è neanche il niente, almeno così mi pare” dice infatti il morto di pagina 121.

E se i 128 personaggi che si susseguono ci parlano nella loro banale, tragica, comica o surreale evanescenza, inducendoci al sorriso e a prenderci gioco del morire, l’autore in realtà ci sta segnalando che è l’ora di vivere appieno la nostra vita e quella degli altri, di ribellarci a un deserto che ci sta lentamente soffocando nel cinismo e nell’indifferenza, fino a travolgere nel panico. Così sottolinea nella nota di congedo:

“puoi (solo)scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa.”

Eh sì, a me pare che questo niente che sorregge e corrode ogni cosa non sia solo l’impalpabile panico dello scrittore Arminio, ma è proprio questo nostro modo di vivere, di produrre, di stare al mondo, perché “i morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina” Son quindi cartoline d’un vivo per i vivi.

Affido allora la conclusione a Domenico Scarpa, che chiosa:

” Vista dalla prospettiva della morte, la vita si chiarisce e si capisce. È una linea spezzata fatta di brevissimi momenti, che dicono tutto senza sparpagliarsi perché la voce che viene di là sa fonderli in un oggetto completo; così, la vita è un oggetto, e la morte ne è la voce.
Se questo libro “è tenuto insieme soltanto dal suo ritmo e da quel morso alle redini che è il farsi improvviso dei testi, tuttavia “ è un libro che parla essendo muto, è uno schedario di storie senza appiglio: l’ansia che emana deve fare a meno dell’io, così come la storia che narra deve rinunciare allo scorrere del tempo, ed è così che la scrittura vive – dalla morte – la sua vita perfetta, sciogliendosi dai vincoli della persona e della durata.
Cartoline dai morti è un libro che impone alla letteratura una nuova «forma semplice»: nel 1930, alle forme semplici dedicava uno studio memorabile André Jolles, che ne contò dodici. Oggi Arminio viene a prendere posto come tredicesimo a questa tavolata illustre senza dover temere nessuna disgrazia.”

E direi che Arminio ci sta proprio seduto bene, a quella tavola.

(15 Dicembre 2010)

a capofitto



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