Con Poste ed Enav, dopo tante ciance, promesse e minacce, partono le privatizzazioni. Ma non saranno “complete”, no, e non per indecisionismo, non per prudenza, non per una ragionevole verifica dell’efficacia. Ma perché così se c’è una falla può tornare in campo lo stato benefattore, in modo che le dinastie di quel capitalismo inerziale che ha sempre potuto contare sulla generosa assistenza pubblica, si salvi da crudi insuccessi e pesanti passivi. Oddio si comincia con due settori poco emblematici e rappresentativi: non credo che ci accorgeremo granché dei cambiamenti di gestione, è quasi sicuro che non riguadagneremo la leadership dei cieli o un nuovo decollo – tramite assistenza al volo – dell’Alitalia. E nemmeno possiamo illuderci in recapiti puntuali, salvo quelli di Equitalia, dopo che Passera ha già provveduto alla pandemia dell’inefficienza postale che ha colpito tutti i doverosi servizi ai cittadini, salvo le prorogabili ineluttabili funzioni postali.
E non c’è da credere alla squallida motivazione che sarebbe all’origine della “cessione” controllata, che dai tempi di Quintino Sella che infatti ne mise in risalto i molti danni e gli esigui guadagni: in questo caso i magri introiti compenserebbero la riduzione delle tasse sul lavoro. In realtà è solo un altro test per saggiare la riuscita auspicata di quella che già Galbraith chiamava la “privatizzazione dello Stato”, favorita soprattutto in Italia dalla privatizzazione della politica. Così si accontenta qualche potentato impotente al rischio e all’investimento incerto, salvo quello del gioco d’azzardo finanziario, che assedia il potere pubblico piegandolo a servire i loro disordinati interessi parassitari.
E come da loro torto? Gli Stati che hanno sacrificato l’interesse generale e il bene comune in nome della salvezza del sistema finanziario perché non dovrebbe impegnarsi altrettanto per loro, che quel sistema contribuiscono e del quale vogliono approfittare, distogliendo risorse da investimenti in innovazione, sicurezza, scegliendo la via immediatamente profittevole dell’economia immateriale rispetto alla produzione. E d’altro canto gli sponsor delle liquidazioni in grande stile premono, Unione europea e Fondo Monetario Internazionale. L’ Europa tramite 6 raccomandazioni raccomanda di ” favorire l’accesso al mercato per la prestazione dei servizi pubblici locali”; il secondo, sollecita e accelera: ” l’agenda delle privatizzazioni, specialmente a livello locale,. deve essere implementata velocemente”.
Tutti ormai sanno bene per esperienza, che con le privatizzazioni la qualità dei servizi diminuisce, che quelle realizzate per far cassa nell’Europa Centrale e Orientale si sono tradotte in fallimenti, incrementando solo le disuguaglianze. Perfino il governo inglese ha fatto autocritica rispetto a quello che era il perno della sua politica conservatrice. Il fatto è che perfino per i più ferventi fan del ragionevole pragmatismo, le svendite sia pure controllate, sia pure chiamate pomposamente “riforme” rappresentano invece misure controproducenti e autolesioniste fino al suicidio.
Ma come stupirsi, hanno privatizzato partiti, parlamento, l’etere, l’aria che respiriamo, avvelenandola, la scuola, gli spazi urbani della nostra mobilità quotidiana, la bellezza del paesaggio, il tempo di vita, tradendo i nostri pronunciamenti. Si moltiplicano le vetrine nelle quali esporre le disincantate propagande della teologia del profitto: la grande fede di una umanità in marcia verso i lidi dell’emancipazione universale è sostituita dal «concetto puramente geometrico del procedere innanzi» dall’ossessione del primato della crescita, possibilmente illimitata, quella conversione “privata” del progresso al cui centro si erge la libertà, in egemonia delle “licenze”, con l’eliminazione delle burocrazie ma soprattutto dei controlli, il premio al merito, circoscrivendolo a prerogative dinastiche, il libero mercato come supremo ed equo regolatore delle relazioni sociali, tanto da esercitare una formidabile capacità di fascinazione, anche sui vecchi partiti della sinistra e su giovani già vecchi. Eppure dopo trent’anni di pubblicità “progressiva” il risultato è che le prossime generazioni vivranno peggio delle precedenti, i figli peggio dei padri, depredati già nella culla di futuro, di beni che avevamo avuto noi in prestito, suoli, boschi, acqua, sapere e conoscenza.
Decidono per noi uomini mediocri, che sostituiscono alle antiche “immagini del mondo”, alle aspirazioni di riscatto, i loro gretti salvadanai, mentre il deserto avanza e non ci arriverà nemmeno una cartolina coi saluti.