A pochi passi dalla grande moschea, inizia uno dei quartieri popolari di Casablanca. Qui non ci sono turisti e il lato esotico del Marocco lascia il posto a qualcosa di meno oleografico e più reale: la povertà. Casablanca è il posto degli opposti: ristoranti chic sulla corniche e angoli di strada in cui si mangia furtivamente e in piedi; il centro commerciale più grande d’Africa e i mercati in mezzo al fango; l’élite francofona e secolare e l’islamismo montante.
Nella vecchia medina, un dedalo di viuzze che si intersecano e girano su se stesse, si vedono barbe lunghissime, portate con un certo orgoglio. Ci sono anche vari tipi di velo, fino ad arrivare al modello estremo, quello alla Dart Vader. La gente qui non è molto abituata agli stranieri e vice versa (i due europei che incrocio mi salutano come se mi conoscessero da tempo, quasi sollevati all’idea di vedere una faccia amica).
Decido di fare un po’ di shopping, svaligiando un negozietto di olive e poi proseguendo verso i datteri, l’uvetta, i limoni canditi e le mandorle. Decido anche di investire in uno stock di mutande Calvin Klein (chiaramente originali) per non tradire la mia personale tradizione di comprare biancheria intima solo ed esclusivamente in Maghreb. Quando ho finito rientro in albergo, costeggiando il mare, mentre il cielo si tinge di rosso in attesa del tramonto.
Casa non è bella ma piace.