Qualche giorno fa la nostra Simo Mucciaccia ha lanciato un fantastico giveaway, Dimmi una cAsa: in palio due bellissime tazzone fatte da lei che mi hanno subito fatto desiderare di essere la fortunata estratta. Ci ho provato, ho commentato in coda al post, ho linkato sul profilo facebook, ho aperto le porte della mia casa alla Simo come richiesto…
... ah, no... dite che quest’ultima non l’ho fatta? È vero, non l’ho fatto. Per una svariata serie di motivi, che forse verranno fuori alla fine di questa serie di post, non sento la casa in cui vivo ora come veramente mia, ho avuto poco modo di essere creativa (ed in realtà, come ho confessato a Simo, c’è ben poco di Mucciaccia in me) e non ho mostrato alcun angolo della mia casa al mondoblog. Però, però, però, complici i sensi di colpa per aver mancato ad una tanto semplice richiesta e un po’ di malinconia che in questi giorni grigi mi attanaglia, ieri notte, mentre cercavo di addormentarmi dopo aver messo a letto Princi, ho iniziato a ricordare tutte le case che ho abitato da quando ho lasciato casa dei miei e ho partorito questa malsana idea. Simo, non ti farò entrare nel mio angolo preferito, nel mio angolo più decorato, nella mia casa dolce casa, ma ti farò sbirciare in tutte le case dove ho vissuto. Contenta? Fai male. Il percorso potrebbe essere piuttosto inquietante.Siete avvertiti.
Cap. 1. Via Ospedale – La rinascita.
Ripensando alle case in cui ho vissuto da quando ho lasciato il nido e mi sono trasformata in una studentessa fuori sede la parola che mi torna alla mente più spesso è: inquietante.Tutte le case in cui ho vissuto, per un motivo o per un altro, sono collegate a ricordi inquietanti: spesso era la casa in se ad esserlo, altre volte erano i fatti successi in quella casa. Tutte, comunque, mi hanno accompagnato durante gli studi universitari e, a ripensare a quel periodo, la sensazione di inquietudine mi pare minima, anzi, ricordo quegli anni, nonostante tutto, come i più belli della mia vita… evidentemente il solo fatto di vivere la mia vita, da sola senza la famiglia che mi mettesse limiti e confini mi bastava a farmi sentire viva, rinata.
La prima stanza che ho preso in affitto nella città universitaria mi ha trovato senza che mi impegnassi in alcun modo per cercarla. Vi abitava già da un anno una falsacugina (figlia di amici di famiglia che ho sempre chiamato zii, trasformando i relativi figli in falsicugini appunto), EmmeA, che in città si faceva chiamare Ci e che fece sapere ai miei che nella casa dove viveva si era liberato un posto letto in una stanza doppia. Con i miei andammo a vedere la stanza che si presentava come pulita e relativamente vicina all’Università e senza cercare altro la prendemmo.La stanza, con due posti letto, faceva parte di un appartamento al piano terra di un palazzo all’angolo di una salita ripidissima che rappresentava l’inizio della scalata verso Castello, la parte vecchia della città. Le altre coinquiline, EmmeA detta C, Esse e Emme frequentavano tutte, seppure in anni diversi, il Diploma di Laurea in infermieristica e non era un caso: l’appartamento si trovava esattamente di fronte all’ingresso dell’Ospedale Civile che, ospitava la sede del Diploma di Laurea e, con il suo antico ingresso monumentale, si ergeva in tutta la sua maestosità di fronte al palazzo impedendo al sole di entrare dalle nostre finestre per più di dieci minuti quotidiani (in estate, in inverno il sole non lo vedevamo proprio).L’appartamento era stato ricavato probabilmente da una cantina-deposito. I proprietari vivevano nello stesso palazzo, all’ultimo piano, ed erano proprietari e gestori del bar che si trovava all’angolo del palazzo ed il cui retro condivideva con noi il corridoio di ingresso al palazzo.Era stato ristrutturato relativamente di recente: i muri erano imbiancati di fresco ed ancora puliti, nonostante la facciata esterna fosse completamente annerita dai gas di scarico della auto di passaggio e soprattutto degli autobus: l’Otto, che tante volte mi ha portato di fronte alla facoltà, faceva una tale fatica a fare la stretta curva in salita che sputava, esattamente all’altezza delle nostre finestre, un fumaccio nero impossibile da mandar via dai vetri. Ad ogni passaggio sembrava di sentire un treno in partenza e, francamente, vederselo avvicinare pericolosamente ai vetri faceva una certa impressione: sembrava che le persone affacciandosi dai finestrini potessero bussarci alle finestre… in effetti il marciapiede era piuttosto stretto da quel lato.
Superato il portone d’ingresso, si entrava in un corridoio perennemente senza luce da cui a destra si accedeva al retro del bar e a sinistra si entrava in un minuscolo disimpegno da cui una porta introduceva alla tavernetta, dove i proprietari del palazzo cucinavano e mangiavano insieme a tutti gli amici pentoloni di cinghiale cacciato di frodo, ed una seconda porta introduceva al nostro appartamento.Anche qui, su un corridoio dove non arrivava mai il sole, si affacciavano le porte delle due stanze doppie, la prima abitata da EmmeAdettaC ed Emme, la seconda da me ed Esse. Il corridoio terminava in un cucinino che a malapena ospitava un tavolo, una cucina il frigorifero ed alcuni pensili ed introduceva al bagno ed al pozzo luce del palazzo: qui, riparato da una semplice tettoia si trovava il lavandino della cucina.Emme arrivava a malapena a un metro e cinquanta, aveva i capelli corti e neri e più che un’infermiera sembrava una suora, di quelle un po’ rigide, nate per lavorare negli ospedali.EmmaA detta C era bella, bella davvero, ma la scarsa intelligenza e la poca voglia di studiare la portavano a prendere poco sul serio il Diploma di Laurea e a preferire le uscite con il fidanzato manesco Gi.Esse aveva un visino da topo sempre sorridente (immaginate però un topino cattivo, con gli occhi furbetti), sembrava simpatica, amava la vita notturna più di quella universitaria e in breve tempo cominciò a mangiare di nascosto le mie cose, consumare i miei profumi e le mie creme e sempre di nascosto utilizzare saltuariamente i miei abiti. Cose che le erano permesse dal fatto che il più delle volte io passavo le giornate in Facoltà e le notti a casa del mio ragazzo.Esse fu la parte inquietante di questa casa.
Continua… forse.