Quando la fine della guerra fredda impartiva a livello mondiale la sua lezione, insegnando che nessun sistema politico può vivere abbastanza a lungo se non è accompagnato da benessere economico, gli attori internazionali non percepivano ancora il grado di applicazione pratica che poteva farvi seguito. In modo precipitoso e poco assennato, gli Stati nazionali si sono privati di molte prerogative sovrane, credendo di trarre solo benefici dall’aumento di prosperità offerto da agenti economici estranei all’apparato statale. Nel frattempo, però, essi stessi portavano a compimento il processo di declino delle autorità statuali, creando nello spazio rimasto vacante la leva sulla quale è emerso un nuovo protagonista della scena globale, troppo astuto per rimanere vincolato ai confini geografici e alle costrizioni che ne derivano: il potere economico globalizzato. Le dinamiche internazionali hanno iniziato a realizzarsi in un contesto anarchico, in cui l’assenza di una governance globale si è sommata all’ambiguità delle sedi decisionali sovranazionali, di carattere esclusivamente economico e finanziario.
La mancanza di lungimiranza dei governi all’indomani dell’emergere della mentalità economica su valutazioni di tipo politico, ha condotto in sostanza ad una situazione in cui le legislazioni nazionali sono completamente inadatte a regolamentare il comportamento di quei potenti soggetti economici che sul fenomeno della globalizzazione hanno costruito il loro impero. D’altra parte, l’ancora carente diritto internazionale non fa altro che ammettere l’esistenza di nuovi importanti attori, senza però prendere atto della necessità di ricondurli all’interno di una disciplina univoca. Le imprese multinazionali, ad esempio, non sono ancora riconosciute dal diritto internazionale come soggetti giuridici. Ciò vuol dire che, nonostante esse siano talvolta più ricche di interi Stati, e abbiano per questo acquisito un enorme potere politico, nessuna norma assume nei loro confronti carattere vincolante. Le multinazionali si muovono perciò liberamente, nell’ambito dello spazio globale, come figli di genitori distratti che non seguono alcuna regola, o meglio, sfruttano le contraddizioni tra quelle vigenti in ciascuno Stato per crescere sulle spalle di chi gli ha dato forma.
Prendiamo in esame gli Stati Uniti, promotori e primi beneficiari della deregolamentazione dell’attività economica: per decenni hanno goduto e continuano a godere della superiorità nel mondo del mercato e della capacità di dominare le relazioni internazionali. I loro interessi sono sempre andati di pari passo con quelli delle grandi imprese nate sul suolo americano: gli investimenti nella crescita economica messi in atto da queste attirano capitale, favoriscono le esportazioni, generano introiti per lo Stato. Ma la crisi economica sembra aver turbato un’amicizia di lunga data, e messo in discussione dei principi ritenuti finora inviolabili. Con la bilancia dei pagamenti gravemente in deficit, gli Stati Uniti si trovano a dover rivedere, ad esempio, il regime fiscale a cui sono soggette le loro imprese, troppo benevolo soprattutto per quelle multinazionali che usano la decentralizzazione delle attività per evitare la tassazione federale. Nel 1952, l’imposta sulle corporazioni rappresentava il 32,1% di tutte le entrate prodotte dalle tasse federali, mentre quelle pagate dai singoli individui erano il 42,2%. Oggi, mentre queste ultime si sono abbassate di solo un punto percentuale, fermandosi al 41,5%, quella sulle corporazioni è scesa fino all’8,9%1.
Non si tratta solo di manifestazioni dell’inarrestabile sviluppo dell’economia e del capitalismo finanziario: la legislazione statunitense ha dotato le sue imprese di tutti gli strumenti per aumentare i loro profitti senza dover tenere conto di alcun obbligo nei confronti dello Stato di appartenenza. Nel 1962, sotto l’amministrazione Kennedy, il Congresso americano approvava una norma, chiamata Subpart F, volta ad impedire che le multinazionali si servissero dei cosiddetti paradisi fiscali per evitare la tassazione federale. In quel periodo, gli Stati Uniti registravano un consistente deficit economico, e lo scopo della normativa era appunto quello di tassare i guadagni provenienti dalle sussidiarie estere di un’impresa americana e offrire incentivi per l’investimento sul proprio territorio. Negli anni seguenti, però, una serie di modifiche e deroghe alla Subpart F ha consentito alle multinazionali americane di sfuggire all’imposizione fiscale. Nel 1997, ad esempio, veniva introdotta una norma nota come “check the box”, che permette tutt’ora alle sussidiarie di un’impresa americana di inviare i propri introiti negli Stati Uniti sotto forma di interessi, dividendi o pagamento di diritti: non rientrando nella categoria delle rendite passive disciplinate dalle legge, questi non sono soggetti ad alcuna tassazione. Nel 2006, inoltre, senza alcun significativo dibattito nel Congresso, veniva approvata una seconda deroga alla Subpart F. La sua efficacia avrebbe dovuto essere temporanea e terminare nel 2009, ma è stata prorogata di anno in anno ed è ancora in vigore: in base ad essa, sono esclusi dal trattamento del pagamento anche quegli utili scambiati tra società sussidiarie. Queste e molte altre eccezioni alla Subpart F rendono facile il raggiro della legge, e si aggiungono alle già grandi agevolazioni che la presenza di paradisi fiscali in tutto il mondo offre ai “colossi” americani.
Il caso della Apple, multinazionale californiana specializzata nella progettazione e vendita di prodotti tecnologici ad uso personale, è solo l’ultimo degli episodi di “evasione fiscale legale” che riguarda le corporazioni statunitensi. Il rapporto della Sottocommissione permanente sulle Investigazioni del Senato Usa2, pubblicato il 21 maggio 2013, fa luce sulle tattiche utilizzate dalla Apple per eludere l’onere del fisco. La strategia di questa multinazionale è di dotarsi di due sedi principali: la prima è negli Stati Uniti (Apple Inc.), dove si svolgono attività di ricerca e sviluppo, e che rifornisce di prodotti finiti sia l’America del nord che quella del sud; la seconda, la Apple Operations International, situata a Cork, in Irlanda, tramite la sua affiliata (anch’essa irlandese) Apple Sales International si occupa del commercio con l’Europa, il Medio Oriente, l’Asia, l’Africa e il Pacifico. La stessa biforcazione si ripresenta per i diritti economici di proprietà intellettuale: Apple Inc. possiede quelli che riguardano i prodotti venduti in America, mentre la sussidiaria irlandese detiene tutti gli altri per le vendite nel resto del mondo. Il fatto che la Apple trasferisca dei diritti economici di proprietà intellettuale non ha altre spiegazioni se non il vantaggio che ottiene sulla tassazione. E non è un caso che abbia deciso di stabilire la sua più importante sussidiaria proprio in Irlanda: sebbene qui l’aliquota fiscale prevista dalla legge sia del 12,5%, dagli anni ’90 la Apple ha sempre pagato un’imposta molto più bassa, che varia dal 2% fino allo 0,05%. Questo perchè la legge irlandese tassa solo una piccola parte del profitto lordo di un’impresa, nella quale i diritti economici non sono contenuti. Inoltre, sia la Apple Operations International che la Apple Sales International non pagano alcuna tassa di residenza: non possedendo un indirizzo né tantomeno impiegati a Cork, dimostrano facilmente di essere entità interamente gestite e controllate dalla Apple statunitense, sebbene neanche sotto la giurisdizione Usa paghino la residenza, in quanto incorporate in Irlanda.
Una situazione come questa fa emergere tutte le contraddizioni della normativa degli Stati Uniti sulle corporazioni: mentre da una parte essi impongono un’aliquota fiscale del 35% (una delle più alte al mondo), dall’altra permettono il trasferimento alle sussidiarie dei diritti di proprietà intellettuale e molte altre scappatoie che consentono a un’impresa di non far ritornare mai sul suolo americano gli introiti provenienti dalle vendite all’estero; questi introiti, pertanto, non vengono tassati. Attualmente Apple Inc. detiene 145 miliardi di dollari tra contanti, equivalenti in denaro e titoli, ma di questi più di 102 miliardi sono tenuti al di fuori degli Stati Uniti, in conti bancari presso istituzioni finanziarie statunitensi. Nel 2011, su 22 miliardi di dollari di entrate, la Apple ha pagato in tutto il mondo solo 10 milioni di dollari di tasse. E secondo il rapporto del Senato Usa, l’impresa deve ancora versare nelle casse americane 44 miliardi di dollari, corrispondenti al pagamento della tassa sui guadagni prodotti all’estero, in un arco di tempo che va dal 2009 al 2012. Ma Tim Cook, amministratore delegato della Apple, ha sostenuto che la sua compagnia non ha intenzione di far rientrare questi fondi negli Stati Uniti fino a quando non ci sarà un ambiente più favorevole e un codice fiscale più semplice3.
E’ evidente che sia l’assenza di coordinamento tra le legislazioni nazionali a produrre, nel quadro dell’economia globale, fenomeni paradossali come la cosiddetta “doppia non imposizione”, in base alla quale i redditi non tassati in uno Stato risultano esenti nel Paese di residenza. L’azione più auspicabile sarebbe il raggiungimento di una regolamentazione internazionale che investa tutte le multinazionali, ma questo passo importante non può non essere preceduto da accordi a livello regionale. L’Europa, ad esempio, sembra voler intraprendere il cammino della conformazione dei regolamenti sulle multinazionali, ma per il momento è ferma alle mere dichiarazioni. Il 22 maggio scorso, il Consiglio europeo di Bruxelles ha avuto come tema anche quello della lotta all’evasione fiscale: i limiti sono emersi subito quando Lussemburgo e Austria, noti paradisi fiscali europei, hanno espresso il loro accordo per una revisione delle leggi, ma solo se ad essere coinvolti siano anche paesi non membri Ue come la Svizzera e San Marino.
La lentezza dei lavori, la scarsa convinzione della classe politica chiamata ad avviarli, l’incapacità del diritto internazionale di imporsi al di sopra degli interessi dei singoli governi: tutto dimostra che il potere economico ha corroso i lineamenti del secolare Stato-nazione, fino al punto che uno Stato non può chiamarsi tale senza un’autorevole leadership economica e finanziaria. Il primo ministro britannico David Cameron, in una dichiarazione fatta al vertice europeo del 22 maggio, sintetizza chiaramente una visione divenuta mondiale: “Io credo nella bassa tassazione per il bene delle imprese, perchè dobbiamo incoraggiare gli investimenti e dobbiamo incoraggiare il lavoro, e voglio che la Gran Bretagna sia un vincitore nella gara globale”4.