Da un fantomatico Facebook di fine Ottocento:
Jack Leo: “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?”. A casa Vicino a Recanati. A Silvia piace questo post. Il Giovane Werther commenta: “Qua la mano fratello!”
A parte gli scherzi, non riuscirei a trovare un poeta più azzeccato di G. Leopardi per introdurre questa tela di C.Friedrich. Fuori piove. Ogni volta che piove,ormai c’è da aver paura a quanto si è evinto dalle ultime pagine di cronaca. E di chi è la colpa? Dell’uomo? Della Natura? di Dio? Di Berlusconi? Dell’Inter? Dei nostri ex?
Caspar David Friedrich (Greifswald, 1815 – Dresda, 1840), il papà del Romanticismo tedesco, ebbe una vita degna del suo movimento artistico-letterario. Nacque in una famiglia numerosa che tirava a campare grazie alla fabbrica di sapone del padre; una sorella morì di morte bianca, un’altra per un incidente, addirittura, un fratello morì nel tentativo di salvarlo durante un gioco finito male su una lastra di ghiaccio. Anche sua madre morì quando lui era ancora molto giovane e, se si aggiunge l’educazione pietista, un must nella cultura ottocentesca tedesca, che incitava a vivere una vita ascetica e lontana dal peccato e dalla tentazione, si comincia a capire il perché di tutta quella malinconia cosmica che segnò il suo operato. Ciò nonostante, si affermò ben presto come pittore, si accattivò la stima dell’alta borghesia e, destando lo stupore dei suoi amici benestanti e beoni, sposò una ragazza del volgo. La favola romantica (e scusate la retorica) andò avanti finché, a causa di un’ ipotetica malattia celebrale, il pittore impazzì nel vero senso della parola. Diventò diffidente verso tutti (anche della moglie), perse le referenze e le committenze, si stancava per un nonnulla e, alla fine, perì. Non ricorda un po’ anche a voi un eroe romantico, l’Adelchi di Manzoni?
Die deutsche Romantik, o meglio, il Romanticismo crucco, nasce quando quì da noi si stava cercando di incollare tra loro i cocci che avrebbero formato l’Italia e in Germania, invece, già si parlava di Nazione e di Nazionalismo, dell’ Io, della Patria e di tutti quei sostantivi che si scivono con la Maiuscola. Il tema principale della pittura romantica, in particolare quello di Friedrich che ne fu il maestro, è il rapporto tra uomo e natura. L’uomo viene al mondo in una natura che è matrigna. Una natura sconfinata e infinita che lo crea finito e impotente, destinato a una misera fine. La Natura non è che Dio in Terra, un Dio che terrorizza e rasserena, e l’uomo è soltanto una caduca manifestazione del Creato. Constatato che la vita è un apri gli occhi e già si è fatta notte, l’uomo si trova davanti a un bivio: inorridire per la catastrofe o cogliere il sublime, tendere all’infinita perfezione inebriandosi della straordinaria bellezza della natura. Da ciò deriva lo spiritualismo del sentimento che valorizza la pura interiorità dell’uomo, i suoi sentimenti spesso estremi e contraddittori, che derivano dal sentire profondamente l’ineluttabilità della morte. L’uomo, tra l’altro, nasce e muore da solo, è soltanto un puntino minuscolo al cospetto dell’universo. Allegoricamente, l’uomo al cospetto di taluni paesaggi, suggestivi e magici, si sente così, solo nell’infinito, come la malinconia che prende il leopardi sul sempre caro ermo colle e che lo fa sentire come un naufrago rassegnato e sconfitto all’interno del mare che è la vita.
Mann und Frau in Betrachtung des Mondes, 1830–35, olio su tela, 34 x 44 cm, Alte Nationalgalerie(Berlino)
In questo dipinto troviamo un bosco con due alberi che dominano la scena. Il fascino barocco di questi alberi imponenti e massicci con i rami intrecciati e frondosi occupa gran parte della composizione. Questi alberi sono lì da tempo, sono passato, presente e futuro, mentre l’uomo è solo immanenza. Questi alberi vecchi e senza linfa, inseriti in un ambiente arido di fine autunno, sono il simbolo di ciò che crea l’uomo durante la sua vita, ruderi, cose destinati a dissiparsi con lo scorrere delle stagioni, cose che il tempo e la natura usurano. Alcuni assegnano a questi alberi anche l’allegoria del paganesimo morto, ma, secondo me, piuttosto, sono l’immagine di Dio, un Dio che si manifesta nelle cose della natura. Un Dio che fa sempre quello che gli pare perchè non è crudele, ma, di certo, fa solo quello che può e, altrimenti, pensa per sé (che, appunto, è l’unico modo per campare a lungo).
In questo bosco un uomo e una donna ammirano la luna nel cielo. Anche la luna è la rappresentazione della divinità e della trascendenza. la luna è il volto di Dio e, come, gli alberi, sa di veglia antica. Custode di segreti, beffarda, silenziosa, curiosa, spietata e misteriosa. Come una Madonna, la luna è sacra e, come tale, è, al contempo, stupenda e inquietante. E’ la blaue Blume di Heinrich Heine, il fiore blu che diventò simbolo del Romanticismo Tedesco, allegoria della Sehnsucht, parola chiave di questo movimento che significa struggimento, la malattia del troppo bramare. Così, nascosta nella penombra, una coppia ammira la bellezza della natura. Un uomo e una donna che nel loro dualismo rappresentano il destino dell’umanità intera: ci sentiamo diversi l’uno dall’altro, ma alla fine la morte è identica per tutti. Non a caso sono stati rappresentati di spalle, infatti. Devono essere censurati per la loro indegnità di stare al mondo. Le spalle sono quelle che lasciamo agli altri quando andiamo via per sempre. Ma, ancora, le spalle sono quello che non vediamo di noi, l’interiorità negata, le paure più recondite. Comunque, se si guarda bene, è la donna a consolare l’uomo. La donna è l’essere capace di provare compassione (con+passione= soffrire insieme). L’abbraccio di questa donna è un abbraccio all’umanità accomunata da questo triste cammino a senso unico. E, anche Friedrich che, sotto sotto, non era mica così bigotto come si poteva credere, diceva che l’unica scelta che si poteva fare nella vita era nell’amore. L’amore è l’unico esempio di libero arbitrio nella vita dell’uomo. Si può cedere al desiderio, illuminarsi d’immenso e rassegnarci alla nostra natura istintiva perché noi, tra l’altro, viviamo solo al presente; oppure crogiolarsi nell’incertezza e morire tristi e di paura. E, anche io, come Friedrich, credo che in questo sentiero che non porta che verso un tramonto, non dobbiamo vivere che di attimi. La Luna non si può avere, lo dicono anche le canzoni, ma desiderarla non è peccato. E anche temere la natura non è peccato. E’ peccato sentirsi invincibili, per esempio. E’ peccato essere negligenti, soprattutto. A questo penso davanti all’espressività di questa semplice immagine che deve la sua suggestione al gioco di chiaroscuro tra cielo e paesaggio, alle tormentate linee curve, alla sua staticità e ai colori freddi e neutri. Penso che chi sfida la Natura non sia solo sciocco, ma anche empio. Perché, poi, quando succedono le catastrofi, non conta più andare a messa la domenica e non bestemmiare. O no?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
(G.Leopardi – “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”)