Maggiore tutela per i lavoratori che, a causa delle legittime rivendicazioni che portano avanti nei confronti del datore, finiscono per essere licenziati. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 16925 del 3 agosto che Giovanni D’Agata, oggi ci analizza. I magistrati di Piazza Cavour hanno restituito il posto ad Andrea M., magazziniere di una ditta di Palermo che commercializzava detersivi e che lo aveva messo alla porta perchè voleva i soldi dello straordinario e dei permessi retribuiti. Senza successo l’azienda ha sostenuto che le norme sul licenziamento discriminatorio non sono “suscettibili di applicazione analogica” in caso di licenziamento ritorsivo. Il licenziamento discriminatorio, sancito dall’art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall’art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall’art. 3 della legge n. 108 del 1990, è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, attuati a seguito di comportamenti risultati sgraditi all’imprenditore, che costituisce cioè l’ingiusta ed arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa
La Suprema Corte, sottolineando che il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva deve essere valutato dal datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa ma che spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, ha osservato che la Corte di merito rilevava la pretestuosità del dedotto riassetto organizzativo che si poneva in contrasto con l’assunzione di altro dipendente avvenuta pochi mesi prima del licenziamento. Correttamente, quindi, la Corte territoriale, ritenuta la natura ritorsiva del licenziamento intimato, ha provveduto all’applicazione del regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 sentenziando il diritto alla riassunzione di Andrea M. e la condanna del datore a risarcirgli tutti gli stipendi persi fino al reintegro, e a versargli 52 mila e 500 euro per straordinario e permessi non pagati.
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