Viviamo, per carità, in un Paese in cui tutti scrivono libri. C’è un bisogno diffuso di pubblicare anche se molto spesso non c’era proprio bisogno che certe cose venissero pubblicate.
Ma c’è anche chi dovrebbe aver sfornato già tre-quattro tomi a sua firma e ancora non lo ha fatto. Peccato. Ne avrebbe guadagnato la letteratura italiana. E’ il caso di un mio amico, di cui vi copincollo uno stralcio di un libro che nessuno vedrà mai in quelle fottute librerie.
Oggi l’Italia vive di nostalgie inconciliabili, ognuno la sua: nostalgia del Pci, della Dc, del Pri; nostalgia dei grandi ideali; nostalgia delle piccole buone cose senza ideologia d’un tempo; nostalgia di incazzature collettive e/o armate ma anche di buone maniere e cortesia di commercianti; nostalgia di maggiorate svampite che ridacchiavano senza recriminare durante l’atto; nostalgia di grandi nevicate, alluvioni, terremoti, cataclismi che ci unirono; nostalgia dello sfruttamento e del pensiero stupendo della rivoluzione;
nostalgia del maschio padrone e della signorina ce-l’ho-solo-io, del cazzo e della figa come instrumentum regni; nostalgia dei bersaglieri, dei presidenti partigiani e delle mignotte autoctone che dopo il coito ti cucinavano aglio e ojo.
Nostalgia dell’eleganza e del vernacolo plebeo; del calcio povero e sgobbone, del ciclismo ascetico; della canottiera virile e della sottoveste; nostalgia, immensa nostalgia, dei vespasiani e dei diurni; di una mafia nobile e, a suo modo, deontologica; nostalgia del VINO DEL CONTADINO; dei matrimoni, dei battesimi, dei funerali, dei pranzi di ferragosto.
Nostalgia dell’industriale crudele però paternalista; della segretaria-amante, dell’amante tout-court. Nostalgia del casinò di Montecarlo e Campione/Piemonte, di Cortina, Capri, Viareggio, Acciaroli, Brera, Testaccio com’erano.
Dell’amaro medicinale Giuliani, del digestivo Antonetto, la Pasta del Capitano, il bagnoschiuma Paglieri, il Borotalco, il borossigeno, l’Aqua Velva, il Citrosodin, la dannata violetta di Parma o il Panno Lenci.