Caterina Davinio - Aspettando la fine del mondo

Da Ellisse

Caterina Davinio - Aspettando la fine del mondo - Fermenti editrice, 2012 con traduzione a fronte in inglese di Caterina Davinio e David W. Seaman, note di Ermina Passannanti e David W. Seaman
Libro, questo di Caterina Davinio, di due viaggi e - ovviamente - di due ritorni. Si va in Africa per qualche safari, come succede nella prima parte del libro, nel Poema I - Africa e altro, oppure, nella seconda, a Goa in India (Poema II - Sciamani (Goa)), luogo deputato della cultura hippie (e post), della musica, dello sballo in riva all'oceano. Si parte, a volte alla ricerca di qualcosa che non sia una semplice abbronzatura e, se non si è dei totali edonisti, si ritorna nella migliore delle ipotesi con qualche riflessione, o - per usare un detto - qualche "presa di coscienza". Intendiamoci, quel qualcosa che si cerca può essere la natura, il buon selvaggio, l'ancestrale culla della civiltà, l'incontaminato, sé stessi. L'importante è farlo con la consapevolezza che si parte con una buona dose di romanticismo rimbaudiano (o, appunto, posthippie) nel bagaglio, è inevitabile. Poi quel che conta, se non si rimane nell'hortus conclusus di un villaggio vacanze, è trarre qualche utile insegnamento dalla realtà (disillusioni comprese), magari passandolo poi al setaccio fitto del linguaggio poetico, ricordandosi però che se la realtà è "crudele" deve esserlo anche il linguaggio, almeno nel senso artaudiano della cosa. Lo dico non a caso, ma proprio perchè ho già avuto modo di parlare del lavoro di Caterina, ad esempio a proposito de "Il libro dell'oppio" (v. QUI), in cui la lingua sperimentava una capacità - abbastanza lontana e certo superiore rispetto a questo libro -  di "sprofondare" nella realtà. Realtà che era,  in  quello ma anche in "Fenomenologie seriali" (v. QUI), non solo intimamente soggettiva, ma anche eminentemente "comune", ovvero civile. Ma il libro è ben scritto, ed ha la sua ragion d'essere. Giacché si parte - diciamo così - "occidentali" e, siamo onesti, senza nemmeno tanti sensi di colpa per ciò che l'occidente ha fatto a quei paesi. Con il nostro sistema concettuale, metaforico, ideologico da mettere alla prova, con la nostra ragione, "un'arma contro qualcosa più forte della ragione", avverte Davinio, "una spada che taglia una piuma", cioè uno strumento del tutto inappropriato o ridondante. E si torna occidentali (consapevoli di poter tornare), dopo aver scalfito appena la superficie, perchè non possiamo permetterci di andare in fondo, o a fondo davvero, siamo sempre noi e "gli altri", coloro che rimangono lì, in una realtà non indeterminata che l'osservatore, per quanto benevolo, poetico, politico, empatico non riuscirà minimamente a modificare (e dove il Rimbaud di "io è un altro" non funziona). Che fare allora? L'artista, anche se ha a che fare con una semplice superficie, riesce a incresparla, fare riecheggiare in sé anche semplici frammenti, trovare uno spirito in questo "altrove", cogliere dei segni nei suoi bagliori, segni di una fine che non sta tanto nella constatazione che i tropici, per dirla con Lévi-Strauss, sono diventati "tristi" anche grazie a noi, ma che in realtà non possiamo andare, con il nostro bagaglio, a rifugiarci in quei luoghi né fisicamente né come mito, perchè forse l' "altrove" che cerchiamo è in noi, quasi come un pre-giudizio. Così, in attesa della fine del mondo (ma quale, davvero) questo "andare verso" diventa speculare (ma molto meno tragico perchè consunto, commerciale) all'altro andare, quello in senso contrario, quello dei migranti in fuga da fame e guerra che si affacciano alle nostre coste altrettanto tristi. Come - se posso fare un accostamento (che non vuole essere valoriale) con un'altra opera in cui la direzione è rovesciata e l'impatto è in qualche modo subìto - ne "Il mondo è vedovo" di Paola Turroni (v. QUI) Ma in fondo, per aspettare la fine di questi mondi (il qui, l'altrove, la realtà, il mito) un posto vale un altro. (g.c.)

da Poema I - Africa e altro
3
La realtà non è che polvere
e fatica;
me, vecchio arnese tra le ombre,
me scalpitante capra nel deserto,
me ultimo degli ultimi,
sfibrato nell'immenso.
4
Il destino era superbo
parlava tra montagne e grigi cumuli
come castelli in cielo
gonfi di calore,
di pioggia,
di messi,
di ricchezza infinita.
La valle e colline rigogliose di promessa
mi diedero vita nella morte continua.
V'erano note solleticanti di nostalgie e di fiumi,
sapemmo il passato e il futuro,
la notte e i suoi risvegli,
fummo posseduti
come Rimbaud all'inferno.
Chiediamo pietà e riconoscenza.
7
Campi aperti
dove soffia il nulla
in scorribande di vento,
danze di polvere,
sudore
e insetti,
erbe secche avviluppano
e minacciano con loro dita sottili
graffiami,
e luce che ferisce,
gli occhi, la ragione.
11
C'era un tempo
forse,
ma non ricordo,
era quando l'amore
diceva cose benevole
che non ricordo.
E ridono e rimordono, ritornano
alcune e non tutte
e mi rammarico di quelle perse e mi rallegro della fonte inesauribile,
perché dio ci amò, donandoci
una fonte
dove la sete e il desiderio
premono sull'infinito
e spegniamo l'ardore,
resuscitiamo la fiducia,
e coniughiamo malintesi, le sviste, l'errore,
l'impreciso,
la pentita sequenza.
14
e
.
la storia finisce
sempre dopo la fine.
E l'universo ferito.
Tra le capanne
battuta polvere
dalla danza
dagli auspici
dalla guerra,
resta, spazio abbandonato
spazzato dai venti.
18
Dammi la tua mano esperta di fratello
e cavaliere compunto,
rendimi i servigi d'occorrenza,
spazia nel cielo l'inferno
e io non temo
le sue angherie:
sono eroe anch'io
come le nuvole spengono l'aria
e irridono il deserto dall'alto,
sono segni dall'alto
che inquietano la terra tremante
ed estesa sotto l'orizzonte,
come spianata confitta nella vastità
per scorribande ulteriori,
corrucciati trionfi, maschere, abusi;
spegnimi, fuoco mio,
sono la tua eletta,
la sfera perfetta,
l'ignoto,
il cavallo pazzo al galoppo,
il destino, la fiera.
19
Segno di parole nel buio,
come un cieco
nella caverna di eremita
meditatore estremo paziente
sulla terra ignea, sarcastica, affollata
di rimedi ulteriori,
di tremule vesti, di colpi di bastone, di machete, di eventi;
sospetto
la tua corruttibile alterità,
so di cordogli rappresi e del coraggio.
Segni di guerra, d'amore, d'oltraggio e frutti immaginari.
da Poema II - Sciamani (Goa)
26
Tatuaggi
Ho disegnato un geco sul braccio
nero sulla mia pelle candida di alieno
lì dove la vostra salute vigorosa e bruna
vaga piena di forza nella fatica
sotto il sole
fuori dall'eden
ho disegnato un geco
perché la mia anima contravviene
al tempo
al giudizio
alla buona sorte
alla preghiera dolente
all'ebbrezza scontata
ho fatto un segno nero sulla mia vita
che mi guardi dall'aldilà
e mi difenda dall'ovvio
accerchiante e spietato
mi laceri di sorpresa
con santa cattiveria
e mi preservi nell'aria
che non sosta mai
e mai spegne le sue correnti.
Ho disegnato un geco
perché la mia anima infrange
il momento
la prudenza
i segni del caso,
l'implorazione angosciata
- con l'ebbrezza uccidono la dignità -
ho fatto un segno nero sulla mia indole selvaggia
che mi guardi dall'alto beffardo
e mi difenda dall'antidoto e dalle cure
dai vostri sguardi spietati
di chi ha ragione
e io torto,
mi stupisca con le sue bugie e verità
con benedetta ferocia d'infante scherzoso
e mi preservi nell'aria
mai ferma
nelle sue segrete correnti.
27
Alba a Goa
Per te non ho parole,
mi tende all'infinito,
la troppa precisione m'incrina
il desiderio;
un caffè dopo la notte
senza soste
tremante di euforie,
di corpi belli,
di futuro dissipato,
di passato dimenticato,
di presente in fuga,
di risata impalpabile,
eppure divoratrice di attimi.
Come sabbia e vento ancora troppo freschi
nell'alba che mi assale e sorprende,
che allarga cerchi di luce nel cielo mite e sinistro,
sull'onda ancora cupa,
sui riflessi equatoriali che fanno
molle la volontà,
corruttibile il senso,
eppure tremo,
tremo di un male e inferno infiniti
come la notte che ancora avanza sue striature nell'alba,
come la morte s'inoltra nelle pieghe
per graffiare via i frammenti,
nel sangue,
che giunge pazzo a destinazione,
rosso come le pietre rosse
che fanno brillare
gli occhi;
soliloquio tra me e l'alba:
un passo e l'altro e tutta l'immensità dinanzi,
non riempibile,
non misurabile,
non rieducabile,
eppure così finita.
Cammino nel nulla, e sono raggiante e vivo.
29
Mentre i passi come i primi passi,
di bimbo,
nella sabbia gelida;
mi fa fremere quell'alba che tarda,
che grigia s'allunga nell'ora
infinita di attesa,
di lunghe ombre;
gemo nell'anima,
di freddo, di circostanze.
Mentre passi come i primi passi
nudi nella sabbia come un gelido bacio,
e mi fa fremere quella luce che esita,
che grigia vacilla nell'ora protesa
affollata di spiriti
e indecisa,
e straziante e infinita si dilata.
Gemo nell'anima
di un freddo dolore.

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