Caterina Davinio, Il libro dell’oppio, postfaz. Mauro Ferrari, Puntoacapo ed., 2012, pp.166, €16
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di Francesco Sasso
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Nella Nota dell’autrice leggiamo: «Infatti, questo libro è rimasto inedito, ed oserei segreto, per più di un ventennio, raccoglie poesie che risalgono a una ormai remota e turbolenta gioventù, scritte tra i diciassette e i trentadue anni. I componenti sono disposti in successione non cronologica. Il libro dell’oppio è parte di un’ampia raccolta quasi interamente inedita: Fatti deprecabili, che contiene oltre quattrocento liriche e testi di performance dal 1971 al 1997».
«Era sempre giorno / vicino alla stazione. / Tutti andavano a comprarsi l’amore / e i sogni / sotto l’insegna blu. / C’era l’amore di velluto nero / quello perverso con finimenti di cuoio / quello con occhi da cerbiatta / e si vendeva l’amore bianco / cui tutti erano fedeli» (Hauptbahnhof, p.47)
I testi di Caterina Davinio prendono corpo entro un vasto campo di dualità: dualità performance-lettura, dualità cronologica (i componimenti furono scritti fra il 1975 e il 1990, e pubblicati il 2012) e infine dualità tematica (dolore-piacere, vita-morte, amore-odio).
Titolo a parte, nella raccolta si parla dunque del rapporto dell’autrice con le droghe, con la società degli anni ’70-‘90, con la morte e l’amore. Leggendo i componimenti di questa raccolta si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un tempo soggettivo che si moltiplica all’interno di un tempo chiuso che, in quanto chiuso, non può che produrre conflitti.
Poesia autobiografica, dunque, diretta, senza vincoli metrici o di forma, sporca di verità. Estrapolare dalla raccolta alcuni versi non ha senso. I singoli componimenti fanno parte di un corpo vivo, spesso le strofe si ripetono in più componimenti e le visioni dell’autore si rincorrono di pagina in pagina.
f.s.
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