Posted 11 marzo 2014 in Armenia, Azerbaijan, Caucaso, Slider, Storia with 1 Comment
di Emanuele Cassano e Jacopo Miglioranzi
Sono passati dieci anni da quel 19 febbraio del 2004, quando il mondo venne sconvolto dalla notizia del brutale omicidio dell’ufficiale armeno Gurgen Margaryan, ucciso a colpi d’ascia dal “collega” azero Ramil Safarov nel proprio alloggio a Budapest, dove i due si trovavano per un corso d’inglese. Dopo aver confessato il delitto, accusando Margaryan di averlo insultato e di aver compiuto gravi offese contro la propria bandiera, Safarov venne condannato all’ergastolo. Il “caso Safarov” esplose quando nell’agosto del 2012 l’Ungheria ne concesse l’estradizione, a patto che l’ufficiale finisse di scontare propria la pena in Azerbaigian. Rientrato a Baku, Safarov venne però accolto trionfalmente dal presidente Aliyev, il quale gli concedette la grazia e ne fece un vero e proprio eroe nazionale.
Questa mossa politica, oltre ad aver aperto una grave crisi diplomatica tra l’Armenia e l’Ungheria, finì per fomentare ulteriormente il forte odio che intercorre tra Yerevan e Baku. Il caso Safarov è stato pane per i denti del nazionalismo che caratterizza in modo evidente entrambi i paesi; nazionalismo che sta portando ad una vera e propria “demonizzazione dell’altro”, dove l’“altro” viene sempre più rappresentato come un nemico, come un male da estirpare. Questa spirale d’odio smisurato che da anni acceca e divide i due popoli – uniti invece da secoli di storia comune – non sembra potersi più arrestare. Ma quali sono i meccanismi che si celano dietro a questo odio incessante? Sono riconducibili a fattori puramente politici (si veda la questione del Nagorno-Karabakh), oppure possono trovare spiegazione anche da un punto di vista più “sociale”?
Come detto in precedenza è in atto un processo di “demonizzazione” dell’altro, del nemico; il quale si trova a dover subire una vera e propria “decostruzione” identitaria. Da anni, ad esempio, il governo azero sostiene il fatto che gli armeni non facciano parte del Caucaso, accusandoli di aver occupato territori storicamente azeri, a partire dal Khanato di Iravan (Yerevan), all’interno dei quali sarebbero “ospiti” indesiderati; dimenticando però che fino alla guerra del Karabakh in molti villaggi situati tutt’ora in territorio azero la popolazione era a maggioranza armena, e che anche nelle grandi città vi era la presenza di importanti comunità (a Ganja, la seconda città del paese, fino all’Ottocento gli armeni rappresentavano quasi la metà della popolazione, e vi era addirittura la presenza di un Catholicos). Lo stesso discorso può essere fatto al contrario: sempre nell’Ottocento, ad esempio, a Yerevan la popolazione era perfettamente divisa tra armeni e azeri, i quali costituivano la maggioranza in alcuni villaggi dell’Armenia centrale e meridionale.
Parallelamente, nel costruire la propria identità si cerca di “reinventare” la storia epurando la propria cultura da tutti quegli elementi di provenienza esterna, che per secoli sono stati condivisi ma che improvvisamente risultano essere obsoleti. Tra gli obiettivi di queste epurazioni ci sono le testimonianze fisiche del passato, come nel caso del grande cimitero di khachkar (le famose croci di pietra armene) vicino a Julfa, nel Nakhichevan, completamente distrutto dall’esercito azero dal 1998 al 2006, o come nel caso dell’unica moschea rimasta in piedi a Yerevan dopo la guerra, la Moschea Blu, salvatasi poiché protetta dalla comunità iraniana ma occultata da una selva di edifici costruiti tutt’attorno per nasconderla al pubblico. Altro elemento da rimuovere sono le testimonianze culturali: emblematico è il caso di Sayat-Nova, il più grande poeta armeno del Settecento. Nato in Georgia, ha scritto però la maggior parte delle sue opere proprio in lingua azera, ma sembra essere stato dimenticato da questi ultimi, proprio perché armeno. Per contro gli azeri esaltano la figura del poeta persiano Nizami Ganjavi, considerato il padre della letteratura azera, il quale è nato sì nell’attuale Azerbaigian, ma non ha mai scritto opere in lingua azera.
Quello che si sta verificando è un processo di scollamento e irrigidimento dei confini, sia fisici che culturali; fenomeno del tutto innaturale che non tiene conto di tanti secoli di pacifica convivenza, ma che sta caratterizzando ormai tutto il Caucaso meridionale. Non sono mai esistiti confini marcati a dividere le due popolazioni, i confini attuali sono frutto di uno sciagurato lavoro di Stalin attuato negli anni ‘30 secondo la regola del “divide et impera”. Perché il fenomeno di irrigidimento dei confini è da considerarsi innaturale? Perché come detto, un confine netto tra le due culture non è mai esistito, ed esse non sono mai state omogenee e del tutto distinte. I due popoli nel corso dei secoli si sono scambiati reciprocamente numerosi tratti, il che è testimoniato dalle molte tradizioni comuni: da alcuni usi e costumi alle credenze popolari, dalla musica al cibo.
Cos’è quindi l’identità di un gruppo? L’identità è qualcosa che si manifesta e si individua solo quando il gruppo stesso entra in relazione con altri gruppi. Identità e cultura sono fenomeni dinamici e continuamente mutevoli, collocati in un continuo processo di contatto e di scambio con l’”altro”. Ed è proprio questa capacità di relazionarsi con l’altro a permettere la distinzione con il gruppo con cui si viene a contatto. Seguendo questo ragionamento, il confine non è più quell’elemento salvifico necessario per preservare e definire un gruppo etnico da un altro, ma diventa un limite mentale oltre che fisico. Il rigido confine venutosi a creare tra Armenia e Azerbaigian risulta quindi essere in quest’ottica qualcosa di antistorico e improprio, antitesi di quel processo di reciproco scambio culturale che da sempre ha caratterizzato questi due popoli del Caucaso.
Foto: RFE/RL
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