Un documentario di Werner Herzog non ci si può proprio rifiutare di vederlo. Questo in particolare. Cave of forgotten dreams trova il modo di omaggiare il cinema e scorgerlo anche nel posto più remoto, millenni prima che fosse inventato, e per questo motivo può essere letto come un documentario sulla settima arte, oltre che sull’arte in generale e su quella propria dei protagonisti di questa storia. Gli uomini che hanno lasciato le loro tracce nella grotta dei sogni dimenticati.
Coraggio, umiltà, delicatezza esaltano un racconto senza sbavature sentimentalistiche, capace di suscitare emozioni genuine. Sarebbe impossibile il contrario, di fronte a delle iscrizioni che mostrano quanto fosse presente il bisogno dell’uomo di raccontare la propria vita; di mettere in forma narrativa il proprio rapporto con il tempo, lo spazio, la sopravvivenza in mezzo a tanti predatori anche più feroci di lui, ma non altrettanto intelligenti da sopravvivergli. L’immagine precede la parola. Il fatto che la troupe, improvvisata e munita di speciali ma restrittivi permessi, non potesse avvicinarsi a tutte le raffigurazioni, e potesse riprenderle solo per un centinaio di minuti, dà la misura di quanto questa grotta sia fragile e preziosa. Ma anche tenace, se si è conservata per tutto questo tempo in condizioni tanto buone. Ecco perché, una volta venuto a conoscenza della sua esistenza, l’uomo deve raccoglierne quante più tracce possibili per documentare la vita e la storia che l’hanno attraversata, facendo attenzione che la sua presenza la corrompa il meno possibile. Ecco allora un altro punto di contatto tra il cinema e tutte le attività, come l’archeologia, che l’uomo svolge per capire come e forse perché è su questa terra. Le pareti della grotta lasciano ai posteri, a noi, un’immagine tanto lusinghiera di quegli uomini quanto scialba e piccola proprio di noi. A cosa sono serviti millenni di evoluzione, se quei “primitivi” avevano una coscienza così matura del proprio ambiente e di come dominarlo?
Paolo Ottomano
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