L’Epifania, un giorno perfetto per inaugurare la seconda stagione di Cavour Cacciatore di Vampiri, mia espressione del progetto Risorgimento di Tenebra.
Il presente episodio si riallaccia agli eventi lasciati in sospeso nel capitolo 14, QUI.
Il riassunto della storia di Cavour fino a questo punto lo trovate QUI.
La pagina ufficiale del Risorgimento di Tenebra e tutti i capitoli finora scritti, dal Prologo fino al XIV, invece sono QUI.
Anche quest’anno, 1000 parole (circa) a capitolo, e tanto pulp, in puro stile mfp. Non mi resta che augurarvi buona lettura.
Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.
[Cavour, Pietro e Germaine hanno individuato il vampiro loro nemico in un bordello di Parigi. Ora si apprestano a colpirlo, raggiungendolo nell'edificio in cui si trova, passando attraverso le fogne....]
1 Gennaio 1835
Il buio m’avviluppa, m’accarezza con dita gelide e strali odorosi di liquame. Do la scintilla, pizzicando l’acciarino. Passetti nell’acqua. La torcia balugina e sposta le ombre lunghe, la superficie trema, forse topi. Forse è la mente, a suggerirmi le orbite cave, le labbra consunte in un sorriso di scherno, i denti logori, l’indice messo di traverso, che invita al silenzio. L’apparizione assorbita dal buio, dai mattoni viscidi di muschio grigio.
Il naso brucia, sposto la torcia a destra e manca del tunnel, già mi sono perso. Pietro calcia la punta dello stivale sul muro, attaccato alla scaletta. Fa cenni bruschi col capo. «Levati dai coglioni!» pare intendere col suo linguaggio della mente.
Mi faccio da parte. Lui molla la presa, atterrando nel fiume di melma, solleva schizzi. Una goccia finisce sul viso, brucia. Forse no. Respiro con la bocca, sembra d’ingoiare sterco antico.
Germaine, dall’alto, cala i barili, Pietro prende al volo i tre più piccoli, li sistema sul passaggio lercio e umido, sopra il velo del fango. I tre più grossi lei li cala con la corda, sono quelli segnati con le croci rosse; altri tre normali, poi scende anch’ella, il marrone sulla gonna arriva subito a lambire le ginocchia. L’alza, la sistema con le spille. Si guarda intorno e con un «Cristo d’Iddio!» dichiara guerra alle fogne di Parigi.
A pronunciar quel sacro nome, m’aspetto di vederla ardere. Invece splende come una dea ctonia, col seno gonfio e rigoglioso, che certo nutre i servi d’oltretomba.
«Cazzo ti fermi a guardare!» fa, «Muoviti!»
Mi muovo. Leghiamo le funi ai barili, e ne ricaviamo bretelle. Barile piccolo sul petto, due sulla schiena d’ognuno. Accendo altre due torce, ci teniamo a distanza. Controlliamo le armi. Coltelli, mani come il ferro per Germaine, a carezzar soavi, coppia di pistole col la C nel medaglione sul calcio, per i quarti di nobiltà che mi scorrono in pancia, moschetto dell’Imperatore per Pietro; monta la baionetta, la fa scivolare, scatta. La luce gli scava i solchi sulla gola e le guance, così dev’essere Caronte.
Avanziamo, l’acqua fa le bolle attorno agli stivali, solleva effluvi ch’era meglio rimanessero celati.
Mi fermo, i quarti di nobiltà arrivano alla patta. «Che fai?» chiede Germaine.
«Devo pisciare.»
E mentre scarico li sento ancora, i passi nell’acqua, piccoli e veloci. E una risata infantile. La mia guida, o forse la sua mente, montagna di lardo e sporcizia, perché prigioniera. Guardo i miei compagni, lei tesa e fiera, Pietro col coltellaccio stretto, pronto a tranciare la fune.
La luce aderisce ai contorni del passaggio, come una veste color della brace, si rastrema fino a sbiadire in un buco nero che non riusciamo a raggiungere. Al centro ne compare un’altra, un puntino svolazzante, veloce, l’alone verdastro, un fuoco fatuo scagliato contro di noi, che s’accompagna a un ronzio sottile.
Punta al petto, colpisce, mozza il fiato. Faccio cadere la torcia, smanaccio per afferrare la fata, quando sento i piccoli denti aguzzi che scavano nella carne. La prendo, la scaglio contro il muro, dove il coltello di Pietro s’inchioda tranciandola in due. Le gambette scivolano in terra, lasciando una scia nera sul muro, galleggiano in acqua. Busto e ali restate sulla lama, la piccola testa china, avvilita. Le ali di mosca fanno ancora un piccolo sussulto.
Ma Pietro ha già raccolto il coltello dal muro che si stacca in pezzi, marcio. Mi tocco il petto trovandolo umido e caldo nel punto dell’attacco, mentre il mio amico slaccia i barili e li mette a terra, uno per lato, la torcia sopra uno di essi.
«Che…» accenno a domandare. Lui indica il buio in fondo alla galleria. Germaine morde la lingua e mozza il fiato. Arriva il brusio, che è simile a un lamento, quello d’un intero sciame.
Ci allontaniamo, correndo, sollevando spruzzi abbondanti.
A venti metri Pietro si ferma, noi proseguiamo per un’altra decina, fin quando me ne accorgo. Imbraccia il moschetto e tira, mentre una nebbia verdastra s’avvicina, divorando lo spazio.
Il fumo bianco dalla canna, lo scoppio si ripercuote secco come una frustata, le botti s’aprono vomitando fuoco, che s’allarga come cagato dal culo del diavolo. Mescola e copre lo sciame, s’allunga veloce verso di noi. Pietro si getta nella merda, lambito dalle fiamme, io e Germaine facciamo altrettanto, ma a quel punto si sono già estinte.
Solo una torcia ancora accesa. Tra i mucchietti di cenere e i minuscoli torsi, qualche fata muove le gambette, altre galleggiano, sbattendo i moncherini ch’ora vestono al posto delle ali, poche gemono. La stessa vocina dei gechi, mi trasporta a Leri, da bambino, sotto il portico, quando li cercavo dietro le lanterne, la notte. Sono lamenti lugubri. Ne schiaccio una, fa poltiglia.
«Sono uguali a mia figlia…» mormora Germaine, assorta.
La schiaffeggio. Si distoglie, mi fissa, le labbra tremano. Imito Pietro e estraggo il coltello, faccio cenno d’avanzare.
Andiamo avanti, la galleria compie una curva. Lo stomaco in rivolta, la pressione serra le tempie. Pietro s’appoggia a vomitare. Germaine pare inerte.
Il sudore si secca sulla pelle, l’acqua che impregna gli abiti si stacca e diventa fumo, minuscole lingue guizzanti.
Infine lo scorgo, il bagliore d’una grata lassù, in alto, e un coro antico, ritmico, che proviene al di là, come una liturgia. Il mostro biondo, in guisa di bambina, seduto lì sotto, gambe al petto, nel cono di luce. Con un piedino smuove l’acqua scura.
L’insetto, quello che c’ha attirati fin qui, ha i piedi puntati sulla fronte della genitrice, le gambe tese, le tira una ciocca di capelli sbattendo le ali furiosa, nel tentativo, sembra, di farla mettere in piedi.
Illumino glifi arcani tracciati col sangue, su tutto il tunnel intorno a noi.
Siete giunti, alfine, sentenzia la mia maestra nella mente. Colui che cercate è lassù, oltre la grata, v’ho portati qui, ora che potete distruggerlo, ma attenti a non distruggere voi stessi.
Di sopra, oltre il passaggio, s’ode uno sparo che interrompe il canto, rumori di zuffa e botte, grida belluine di gole straniere e un urlo glaciale s’eleva sopra tutti.
La fatina smette di tirare, vola dietro l’orecchio della padrona e spia, fremente.
continua…