Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.
6 Dicembre 1844
«Entrate» lo invito con la mano, il più possibile cortese, «andremo con la mia carrozza, la faccio preparare in un momento.»
L’uomo sembra perplesso, tuttavia m’asseconda. Fa due passi, sobbalza, porta la mano al calcio della pistola di legno scuro. Pietro posa la canna del moschetto sul suo braccio, invitandolo a desistere con quello e scuotendo il capo lento, un gesto eloquente. Resta appoggiato al portone, serafico e pronto. Un muto che s’esprime meglio d’un Senatore dell’antica Roma.
«Chi altri c’è con voi?» domando al militare.
«N-nessuno, Eccellenza. M’hanno mandato di gran fretta. Dovete venire con me.»
Apro due bottoni del giubbetto scamosciato, mostro il pomo dorato del coltellaccio. Lui lo fissa, ma non si muove.
Impugno il fucile, canna in basso. Pietro mi lancia un certo sguardo, toccandosi la cintola nel punto in cui quello porta appesa la spada. A un mio cenno s’allontana. Mi muovo e faccio strada al soldato nel mezzo del cortile.
Michele s’è rimesso in piedi, si massaggia ancora il capo. Una serva lo soccorre con amore… forse troppo. Sorrido.
«Questione di minuti» rassicuro.
«Il mio cavallo è qui fuori, attaccato al ferro, forse dovrei…»
«Se ne occuperà Michele, dopo essersi fasciato la testa. Ho bisogno di domandarvi certe cose, e che voi rispondiate prima d’arrivare dove siamo diretti. Intesi?»
«C-certo, Eccellenza. E… se posso azzardare una richiesta, cos’è successo qui?»
«Ospiti, amico mio. Soltanto ospiti…»
La guardia abbozza un sorriso.
A cortesia rispondi sempre con fermezza, soleva dire mio padre. Saggio e accorto.
La carrozza sferraglia sul lastricato, ondeggia. Pietro sprona i cavalli, imposta le svolte com’ha imparato in Liguria, sui sentieri tortuosi. Getta chiodi, intanto, per azzoppare i cavalli di chi ci segue, se c’è. Ogni tanto qualcuno rimbalza sul tetto. Forse l’uomo del Re se n’avvede, ma non comprende. Mi guarda invece fisso. Suda.
«Cosa vi hanno raccontato, sul mio conto?» domando, anche se la risposta pare ovvia. Dentro la carrozza fa lo stesso freddo che c’è fuori. E io non sono un bel giovinetto.
Scatto. Estraggo il pugnale e lo colpisco col pomello sulla bocca, con un solo movimento del braccio. Lo aggredisco.
Quello è forte, sputa sangue e un dente rotto, mi blocca il braccio armato e con l’altra mano tenta di strozzarmi. Fa leva sui fianchi, le posizioni si ribaltano, mi schiaccia.
Le dita si serrano in gola, l’altra mano sbatte la mia con la lama contro il sedile, ripetutamente.
Col pollice raggiungo l’occhio e premo. Qualcosa di molliccio e caldo mi scorre nel polsino.
Il soldato urla, allenta la presa. Gli do una ginocchiata. Poi il coltello, glielo infilo nelle viscere, dove ci sono solo le budella, almeno spero, ché deve ancora parlare.
Resta a terra accartocciato, ogni tanto geme e fa per muoversi, al che mi basta ruotare un poco la lama. La punta del moschetto, poi, gliela metto in mezzo agli occhi.
La nebbia sulle colline è fitta, s’attacca addosso come il profumo delle femmine. Mangia i rumori.
Pietro ferma la carrozza. Scendo, lo fa anche lui. Mi vede malconcio, mentre mi massaggio la gola e sputo in terra. Mi rivolge una smorfia di disappunto e scherno insieme, poi m’aiuta a prendere la guardia.
Mentre gli lega polsi e caviglie strette e quello strilla dal dolore alla pancia, afferro la spada rimasta tra i sedili.
La lancio a Pietro, dopo che ha finito. «Cos’ha di strano, dunque?» faccio.
Lui la esamina, la estrae, la soppesa soffermandosi sull’elsa, la rimette nella fodera. Poi mi rivolge il segno della Croce, con indice e medio uniti insieme. La sua Benedizione.
Quella lama è al servizio di Pietro. L’altro, quello che sta a Roma.
***
26 Dicembre 1835
La pallina ribolle lambita dalla fiamma, inebriando d’odore dolciastro. Il colore rossastro si riverbera sulle pareti spoglie, chiazzate d’umido, come i miei occhi.
Tiro qualche boccata dalla cannula, trattenendo il fiato. La rimetto sul piattino, mi distendo, chiudo gli occhi. La testa si fa leggera.
Pietro non ha risposto, non s’è fatto capire in qualche modo, come al suo solito, o forse sono stato io a porre la domanda sbagliata. M’è sembrato mi chiedesse soltanto di riposare…
Dapprima avverto l’odore, simile al cibo vomitato, sa di acido. Lo sento forte, sotto al naso. Poi arriva all’orecchio, quel brusio sottile, intenso, veloce. Apro gli occhi. Volteggia a un palmo dal mio viso, col corpo simile a un feto nella placenta, sporco e viscido, e occhi neri d’insetto. Mette le sue manine sulle labbra e le spalanca, per poi entrarmi in bocca.
Ai piedi del letto c’è la bambina bionda, mi scruta con occhi saggi. Mi giudica.
Mi sollevo di scatto, con l’affanno. Il cuscino è bruciato in un punto grande quanto una moneta, la pipa rovesciata accanto. Non sono morto bruciato.
Porto le dita alle labbra, tastandole e dopo scrutando i polpastrelli. Sono puliti. Lo stomaco si contrae.
Mi sporgo verso il pavimento e vomito.
Una mano sulla fronte, fredda e improvvisa. Ancora mi sollevo di scatto. Sono sveglio, pulito. Di nuovo.
Germaine mi guarda amorevole, stringendo le labbra, seduta sul bordo del divanetto. Sulla sedia accanto ha posato un vassoio con un piatto di minestra fumante e mezza pagnotta. Sembra croccante, m’invita…
«Dicono che l’oppio ammazzi i sogni» osserva.
«Fandonie.»
Prende il piatto, rimesta col cucchiaio, me lo porge. «Mangia, ché si fredda.»
Prendo un boccone, caldo e saporito. Scopro d’aver fame.
Lei spezzetta il pane, assaggiandone una mollica. Mi volge un sorriso.
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