Qualche giorno fa, una fatina mi ha sussurrato che sarebbe meglio, visti i risvolti di questa storia, mettere in guardia i lettori. Perciò, ecco:
La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.
E dopo questa pausa, cominciamo.
***
14 Maggio 1835
Più antica della Luce è la Tenebra…
Due fili rossi e umidi si allungano piano dai fori sul collo di Germaine, intrecciandosi. La testa si piega con lentezza insieme al busto, di lato. Il viso si adagia sul tappeto consunto; un motivo floreale, oro, azzurro e camoscio. Confuso insieme ai ghepardi e alle antilopi.
Mentre mi domando se l’ho sentita per davvero, quella vocina, m’accorgo del battito d’ali. Minuscole ali grigie, di membrana, guizzano dietro i riccioli castani sul di lei collo, spostandoli. Una di quelle resta impigliata, ma dopo due scossoni è di nuovo libera. Sbatte e ronza.
Dal corridoio, giungono frastuono e rantoli soffocati, seguiti da colpi di tosse e fame d’aria. E piccoli passi, leggeri e ritmati, come quelli di un gioco d’infanzia, o una danza sciocca.
Fa capolino la minuscola testa, e un corpicino glabro, color carne; mette un piede sul collo di Germaine, che si fa concavo, soffice. Le fa da leva per spiccare il salto verso di me, ronzando.
Arretro di scatto, sbattendo la nuca contro il muro, mentre smanaccio allontanando quella… cosa.
Essa è rapida, mi scansa, mi deride, mi fa sentire folle e stupido. Urlo e quasi sto per piangere, mordendomi le labbra e soffocando le lacrime. Riesco a colpirla col palmo della mano, che resta viscido. Qulla ruzzola sul tappeto, appiccicandosi di polvere, immobile.
I miei stivali sono a pochi passi. Mi slancio, lungo per terra, ne afferro uno, lo sollevo e lo abbasso sulla cosa, che ha ricominciato a sbattere le ali impazzita, come un moscone intrappolato in un bicchiere al rovescio.
Calo il tacco per tre volte; alla terza, una gambetta nuda, sfilacciata e rossastra a un’estremità, schizza via arrivando vicino a Germaine, al seno gonfio e rigato di sangue, accanto alla macchia scura che sporca il vello del ghepardo, che ringhia dal tappeto.
Infilo gli stivali, sotto a quello usato c’è poltiglia, gli do una scossa. Mi avvicino alla fanciulla, sollevandole la testa con due dita, dal mento. È ancora calda.
Faccio per prenderla, ma il rumore di uno sparo mi distoglie. Mi precipito verso la porta, esito prima di prendere il pomello d’ottone ingrigito, avvicino la mano al naso avvertendo odore di cacio, quello delle ferite in battaglia. Soffoco un conato, poi la apro. Il corridoio è buio, segnato dal rettangolo di luce pulsante che incornicia l’ingresso alla stanza di Pietro e Isabelle.
Altri passetti, dalla parte opposta del corridoio. Credo di vedere una bambina bionda allontanarsi, con una macchia bianca e rossa che è il vestito, e le scarpette laccate. La vedo di spalle, muoversi leggera.
Più antica della Luce è la Tenebra…
Si mette a ridere scomparendo dietro l’angolo.
Corro da Pietro e spalanco la porta. Un’altra cosa svolazza a mezz’aria sul letto lercio di sangue, dove Isabelle giace supina, a gambe spalancate e braccia aperte. Un piede sporge dal materasso, gocciolando. È imbrattata come un maiale squartato.
Un tocco isterico sul braccio. È Pietro che mi afferra e mi scuote. Tra le mani ha due pistole a luminello. Me ne spinge una addosso, sul petto, finché la prendo con dita tremolanti. Ha un taglio sulla gola e la camicia zuppa. Emette un rantolo cavernoso e poi sputa. Mi spinge via, fuori, verso il corridoio. Chiude la porta, intrappolando la cosa all’interno. Anche se sembrava più interessata a Isabelle, che a noi altri.
Mi punta addosso la pistola, la sua, quando capisce che sto tornando in camera a prendere Germaine. Resto a guardarlo. Lui solleva gli occhi al cielo, credo voglia imprecare, ma tutto ciò che gli riesce è tossire, poi mi fa cenno di sbrigarmi. Prima di entrare gli sussurro della bambina. Dal retro della cintola estrae il suo coltellaccio.
Pistola e coltello, mantiene la posizione, come quando eravano sotto le armi, a giocare alla guerra.
Un braccio di Germaine passato intorno al collo, con l’altra mano le mantengo il fianco, tenendola accosto. Scendiamo le scale, affannati. Io col terrore di vederla di nuovo.
Il padrone della locanda ci si fa dappresso con l’aria stravolta e la bocca spalancata. Pietro gli è subito addosso, lo tiene fermo stringendogli il capo con l’avambraccio, impugnando salda la pistola, con la sinistra gli pianta la lama nel petto, poco sopra lo stomaco. Quello strabuzza gli occhi vomitando di lì a poco umore scuro.
Le stalle sono poco distanti. Nella strada ancora buia, Pietro si muove zoppicando, ma continua a condurre. Prendo Germaine tra le braccia, svenuta, guardandomi intorno. Nel vicolo accanto, a un’altezza che dev’essere quella di un gigante del Continente Nero, scorgo un viso ovale e aguzzo, che scompare nel buio. Ghignava, il signore pallido…
Pietro mi dà un ceffone. Punta l’ indice e il medio in direzione dei suoi occhi. Poi sputa catarro rossastro sul selciato.
Carico Germaine su una sola spalla, liberando il braccio con la pistola, e lo seguo, nelle orecchie i rumori del vicinato che si desta, ancora inebetito dalla notte.
***
25 Novembre 1844
Resto a fissare il suo petto, mentre riposa; si alza e si abbassa come un mantice, rapido come il respiro dei cani. Vuoto il bicchiere, mi alzo e faccio qualche passo per la stanza, attraversando le strisce di sole che tagliano il pavimento, bucando i drappi scuri alle finestre.
Dalla teca della cristalliera, la fatina mi guarda da orbite vuote, scarnificata e secca, come una mummia egizia. Giace sotto lo spillone dalla testa dorata. Sembra abbia l’aria soddisfatta.
Mi siedo alla scrivania di legno di cedro. Accendo la lampada a olio. Lei si rigira nel letto.
Intingo la punta nel calamaio, passandola sul bordo. Inizio a scrivere… almeno tre missive, prima di poter dormire.
Sogghigno, sto diventando come Giuseppe; penso anch’io, ormai, che il sonno si confaccia più ai morti, che ai viventi.
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