Cavour Cacciatore di Vampiri – Capitolo 3: Vermina

Creato il 18 dicembre 2011 da Elgraeco @HellGraeco

Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.

14 Maggio 1835

La sanguisuga si contrae nella pinzetta di ferro, viscida e scura. La ventosa boccheggia cieca, in cerca di pelle. Il barbiere sorride dietro i suoi baffi neri, mentre la mostra, soddisfatto, a un palmo dal mio viso.
«Certi le usano per divertirsi, sapete… mettendole là sotto» mima il gesto avvicinandola alle pudenda, sghignazzando. «Sanno succhiare meglio di una puttana…» ride ancora più forte. «Volete dirmi, ora, questa dove l’avete pescata?» fa, rivolto verso Germaine. «Che razza di divertimento vende, ‘sta qui?»
Né io, né Pietro rispondiamo. Spaventato io, indebolito lui. Rinunciato ai cavalli, ripareremo con calma, pensando al da farsi, facendoci scudo col mio nome, ove se ne presentasse il bisogno.
La stanza puzza di trementina. Il barbiere s’allontana, rigettando la sanguisuga nel vaso di vetro e posando le pinzette sullo scaffale di legno grezzo. L’acqua vibra alla luce del lume a olio lì accanto, mentre il verme si scuote cercando un posto sicuro tra i suoi simili. L’uomo si pulisce le mani sul grembiule che indossa, macchiato di giallo, di sangue e di umido. Soffoca un rutto nel pugno, le guance paffute e paonazze. Tossisce. Si versa un bicchiere di vino rosso e lo tracanna. Si volta allora verso Germaine, distesa sul tavolo al centro della stanza: «Gliene ho messe cinquanta» dice. «Dovrebbero bastare a mandare via il male. E se non le togliamo, tra un po’ crepa.»

«È stata… morsa» dico.
«Non da un cane! Da cosa, allora?» sbotta, posando il calice di legno. Fa un rumore sordo, contro il bancone.
«Un insetto…» Penso alle cose svolazzanti, bestiacce piccole e immonde. Rammento i ronzii e rabbrividisco. «È stato un insetto.»
«Ah!» esclama quello, «E da quando, mordono? Li avranno portati mica dalle Indie insieme all’oppio!». S’avvicina a Pietro. Questi è seduto, bicchiere di vino in mano, si tasta la fasciatura alla gola, dove il barbiere l’ha ricucito. Beve a piccoli sorsi. Il viso grifagno, incorniciato nei lunghi capelli lisci e corvini.
«E tu, grand’uomo?» fa il bottegaio al suo indirizzo. «Anche a te t’ha morso un insetto? Eh?» Si china verso di lui, all’altezza del volto.
Pietro scatta, il bicchiere vola via, rotolando di lato, lasciando una scia di vino. Il suo ginocchio si pianta tra le palle del barbiere, mandandolo steso in terra. Quello geme e si mantiene gli attributi, ancor più rosso in viso, tossisce e s’affoga col catarro.
Dopo, il mio amico gli si fa dappresso, lento e silenzioso, sorreggendosi al tavolo. Slaccia il sacchetto di cuoio che porta alla cintola e, steso il braccio in avanti, lo rovescia, facendo cadere sette marenghi, lenti e sonanti. Tintinnano vicino al viso del barbiere che, tolta una mano dall’inguine, s’affanna a raccoglierli comunque, maldestro, stringendo i denti e ansimando. Gli occhi gonfi e umidi.
Pietro si porta l’indice alla bocca, mettendolo di taglio. Lo invita al silenzio con l’oro. Dopo ricorrerà al coltello.
Mi faccio accosto a Germaine. Tolgo una sanguisuga con la punta del dito, mentre pulsa e si gonfia, come un serpente che ha ingoiato un topo, in concerto con le altre sullo stomaco, le braccia, i seni e il collo. La vena del giugulo si muove, ritmica.

Il verme si contrae, raggomitolandosi. Lascia una chiazza rossa informe, e la pelle arrossata in quel punto, il resto livida. Tocco la fronte col palmo della mano, è madida, ma ancora calda. Il respiro è irregolare e veloce, ma non può dirsi affanno. Le punture sul collo sono piccole e odorose di pus. Già marciscono.
Pietro mi fa cenno col mento, al che annuisco e m’incammino.
Fuori, ai primi chiarori, il palo del barbiere, bianco e rosso, e una torma di gente che corre chiassosa, lungo la via. Sopra i tetti delle case s’espande fumo nero, lontano, lì dov’è l’albergo. E i demoni che lo abitano. Sento l’odore di bruciato.
Rientro, Pietro tracanna altro rosso, muove appena il capo a fissarmi, il barbiere libera il ventre della donna dalle ultime sanguisughe, con mano tremante. Lei s’inarca, urla, gli occhi colmi d’icore scarlatto.
«C’è un incendio… forse è l’albergo. Che sta succedendo?»
Germaine continua a dibattersi, afferrata per le spalle dal bottegaio, che la tiene giù.

***

4 Settembre 1835

Il damerino s’accomoda sulla sedia di noce, armeggia nella borsa di pelle lisa, prende delle lettere piegate con cura. Le butta sul ripiano della scrivania, a ridosso dei miei occhiali e del tagliacarte d’oro.
«Scrivete davvero bene, Cavour. Il vostro stile è eccelso, se posso azzardare un parere.» Fuma da una pipa ritorta. Tabacco al whisky, a giudicare dall’odore.
Mi limito a fissarlo, le dita incrociate sotto il mento, la schiena addossata alla poltrona. Fuori, le chiome dei faggi ondeggiano nella brezza della campagna francese. Il sole è malato, come quasi ogni giorno, negli ultimi due mesi di permanenza in questi luoghi.
«Fate attenzione, la prossima volta, a dove lasciate i vostri scritti. Certi luoghi fanno male alla reputazione, dovreste saperlo…»
Raccolgo solo una lettera. La riconosco ancor prima di aprirla. Il mio pensiero corre a Nina. Non la vedo da circa un anno.
«Ho bisogno di riposo, la mia salute è malferma. Cosa volete, signor…»
«Sapere cosa credete di aver visto, quella notte, vostra eccellenza.» Si riavvia la riga tra i capelli bene oliati. La bocca si stringe sotto i baffetti sagomati con cura, mentre una vena sulla tempia pulsa. Poi riprende: «Lo stesso motivo per cui, ritengo, abbiate rimandato la vostra partenza per l’Inghilterra. Per il quale vi siete ritirato in questo eremo dorato e per cui, contro ogni ragione, non fate ritorno a casa.»
Mi alzo, mani dietro la schiena, avvicinandomi alla finestra. Pietro ha finito di caricare le pistole e i due moschetti. Mira alle zucche fissate sui pali, quando non tira di scherma, o caccia. Non ha più parlato, da quel giorno, forse a causa della ferita.
«Siete qui per arrestarmi?»
«Signore, le ragioni della mia visita implicano argomentazioni non pertinenti al vostro rango.»
Estrae dalla borsa un recipiente cilindrico colmo d’un liquido giallastro, simile a orina. All’interno, fluttua un minuscolo feto: l’espressione feroce, la bocca irta di zanne.
Pietro spara in giardino, facendomi sobbalzare.

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