«Solo per il fatto che una legge non risolve tutti i problemi non vuol dire che non sia necessaria. [I berlusconiani non si approprino di questo concetto]. Certo, la laicità ha bisogno di una pedagogia, ma questa a sua volta ha bisogno di una legge. La legge ovviamente non sostituisce il dialogo, ma gli fornisce una base su cui lavorare. Se una legge dovesse essere universalmente accettata per poter essere adottata, non ci sarebbero più state leggi dal 1905. [Ancora una volta i berlusconiani non provino a torcere a proprio favore tali parole. Qui si parla di “laicità” non di interessi privati in atti di ufficio]. La rottura unilaterale del Concordato, che valse ai suoi promotori gli strali della Santa Sede, non è stata poi accettata da tutti dopo una fase di concertazione e accordi? [Ah, la Francia!]. I cattolici oggi l'hanno fatta loro, in totale buona fede, così come un giorno probabilmente faranno i musulmani con ciò che oggi disapprovano. Perché ciò che la Storia ha permesso ieri non dovrebbe essere possibile domani? [Speriamo]. Le leggi non hanno solo una funzione repressiva. Hanno anche una forza espressiva. Solamente la legislazione nazionale può stabilire una gerarchia fra due serie di norme ugualmente apprezzabili, ma potenzialmente contraddittorie: la libertà individuale di espressione e l'uguaglianza fra gli uomini e le donne [...] Non si tratta di delegittimare questo o quel credo [...] ma di limitarne il potere, per il benessere di tutti. Ai tempi Franco, dire no alle legioni del Cristo-Re non significava essere anticristiani. Bernanos e Mauriac hanno reso un buon servizio all'onore cristiano. Criticare la politica coloniale di un Governo di Tel Aviv non vuol dire essere antisemiti, così come il fatto che molti ebrei prendano le distanze da quella politica non vuol dire che rinneghino la loro fede. Dire basta a una supposta prescrizione religiosa che si rifà in modo piuttosto dubbio al Corano (e quand'anche fosse, non siamo tenuti a entrare in questo dibattito teologico) non significa essere islamofobi. La Tunisia musulmana l'ha fatto [vietare il burqa] con una circolare, e la Turchia con una legge, anche per la funzione pubblica. Se solo l'Islam può riformare l'Islam, noi possiamo e dobbiamo aiutarlo dall'esterno. E, nel fare ciò, tendere la mano ai precursori di questa cultura decisi, a loro rischio e pericolo, a garantirne l'avvenire [...] Ogni legge a protezione di una minoranza perderebbe la sua ragione d'essere se non venissero adottate simultaneamente delle misure pratiche contro le disuguaglianze, oltre al fatto che una qualsiasi forma di fascismo non acquisisce legittimità solo perché i diseredati vi si riconoscono».
In buona sostanza, riassumo spero non impropriamente, porre un argine al burqa significa frenare la spinta teocratica che sfrutta la liberté infischiandosene della egalité fra uomo e donna. Nello spazio pubblico delle società civili uomo e donna sono uguali e liberi allo stesso tempo. D'accordo, si dirà, una donna può indossare liberamente il burqa. Ma il burqa è un simbolo religioso e...
«la sfera domestica non deve invadere gli spazi pubblici, perché questi, per svolgere la propria funzione specifica, devono tenere ciò che concerne l'ambito intimo entro certi limiti. Noi ci togliamo le scarpe quando entriamo in una moschea, senza per questo convertirci all'Islam. Chiedere a dei praticanti di togliere il copricapo e ogni genere di simbolo [corsivo mio] alla porta degli istituti scolastici [...] non significa imporre loro di rinunciare a ciò che sono, e ancora meno obbligarli a convertirsi a un credo che non è il loro. Significa chiedere di rispettare la natura particolare che la nostra Storia [repubblicana] ha conferito al luogo nel quale chiunque può entrare come vuole senza distinzioni».
Régis Debray, Cosa ci vela il velo. La Repubblica e il Sacro, Castelvecchi, Roma 2007 [trad. Michele Bertolini].