È l’amore il vero regno della libertà. Fatti salvi il rispetto di sé e degli altri e i limiti previsti dalle leggi, chi non può amare chi vuole e come sente non è libero, e non lo sarà mai. Ben lo sanno le dittature e le religioni, le quali passano più tempo a reprimere la vita privata degli individui che quella pubblica delle collettività. Oppure a imporre di mentire a sé e agli altri, adottando vite doppie o triple pur di salvare le apparenze dell’ipocrisia e avvelenando così con i semi della colpa e della paura, della vergogna e del ricatto l’esistenza sprecata di troppi individui. Anche nei paesi più liberi, laici e rispettosi della mutevolezza dei sentimenti e dei desideri umani, sono due i serbatoi dei valori e dei pregiudizi antichi che appaiono, da questo punto di vista, ancora inespugnabili: il mondo militare e quello dello sport. Entrambi riservati, fino a che è stato possibile, solo agli uomini.
Ma non c’è impalcatura maschilista capace di reggere all’urto dell’avvento di una tendenziale parità fra i sessi. Con l’arrivo delle donne, prima sui campi di gara, poi nelle caserme, è saltato in entrambi gli ambienti il coperchio di una pentola a pressione che custodiva sentimenti ribollenti e pulsioni inconfessate. Nel mondo civile non è più pensabile, di conseguenza, alimentare l’aggressività bellica e l’agonismo sportivo con le rimozioni e le negazioni, le rinunce e le sublimazioni. Non ci crede più nessuno, perché non è credibile che veri e propri vivai umani ad alto tasso di eccitazione fisica e mentale, di effervescenza muscolare e ormonale, possano essere il regno dell’astinenza e della castità, favorite dalla fatica e dal bromuro.
La nostra è per fortuna la prima epoca della storia, a partire dal periodo classico, che torna a riconoscere anche a chi si misura sui campi di gioco e
di battaglia il diritto di non fare affidamento solo sulla tecnica e la concentrazione ma anche il diritto di vincere o di perdere col cuore e con i sensi, anche perché non c’è solo il senso del dovere.
Quel fiero demone che si chiama sesso non si accontenta più del misero sfogo mercenario concesso una volta alla truppa, né più tollera l’isolamento e il ritiro imposti agli atleti prima della gara. Soldatesse e atlete hanno insegnato ai colleghi maschi che anche loro possono e anzi devono, innamorarsi. Senza vergognarsi, senza sentirsi per questo più vulnerabili. Senza temere di indebolirsi sul piano della resa e della prestazione. Senza temere critiche e recriminazioni dei superiori e delle folle. Campioni e campionesse in amore, dunque. Ora le loro passioni non fanno più scandalo, anzi le loro gioie e i loro dolori, seguite da milioni di persone, riempiono le cronache e l’immaginario del mondo occidentale, libero da quella cappa plumbea altrove tuttora imposta dagli stati etici e teocratici. Tranne che in un caso: che i loro amori non siano per qualcuno dello stesso sesso.
Di nuovo, in parallelo, sportivi e militari annaspano sulla soglia dell’ultima liberazione: quella del sentimento e del desiderio gay. Di ciò che questo significa per chi indossa la divisa, diremo un’altra volta. Qui ci occupiamo di calciatori e tuffatori, rugbisti e pugili, tenniste e nuotatrici. Se vi hanno insegnato che i maschi omosessuali in realtà sono femminucce e che le lesbiche sono mezzi uomini, preparatevi a restare a bocca aperta. Farete per la prima volta la diretta conoscenza di campioni di muscoli e cervello che non si vestono da donna, perché sfigurerebbero, e di campionesse rapide e leggere come il vento che non si vestono da uomo perché non vincerebbero. E invece, gli uni e le altre hanno vinto tutto, salendo ogni volta sui podi più alti. Tranne quando si sono nascosti, precipitando in privato nella polvere dell’infelicità. Quando al contrario, sempre più spesso, si sono pubblicamente esposti, hanno riscattato dalla depressione migliaia di ragazzi e di ragazze che fingono negli spogliatoi di non essere quel che sono per non subire umiliazioni e offese.
L’ultimo tabù, quello dell’ omosessualità nello sport, ha infatti prezzi umani altissimi fra i più giovani, e conseguenze gravemente negative nella ricerca di nuovi campioni che, assai meno di prima, sopportano e sopporteranno l’obbligo della dissimulazione, della falsità e della doppiezza.
E infatti si moltiplicano ovunque nel mondo i coming out di campioni professionisti e dilettanti che rivendicano il diritto di essere bravi e omosessuali senza diventare sgraditi in allenamento e invisi alle tifoserie.
Tranne che in Italia – tanto per cambiare – dove, soprattutto nel calcio, presidenti e allenatori, sindacalisti e commentatori privi del coraggio di dirsi omofobi, quali sono, fanno muro negando l’esistenza stessa del terzo sesso negli spogliatoi o sconsigliando l’esternazione delle proprie sensibilità per non turbare i compagni o le compagne eterosessuali. E di chi da sempre è costretto a millantare finti partner per essere accettato, chi se ne occupa? Nessuno apparentemente. Ma lo sport, importante com’è da mille punti di vista, non può più far finta, neanche nel nostro paese, di essere un universo separato dal mondo che cambia e che migliora nel rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza fra tutti gli uomini e tutte le donne, quale che sia il mestiere che fanno.
State per leggere storie di idoli sportivi che hanno dovuto soffrire per l’amore, oltre che per l’onore delle classifiche. Perché non sono riusciti a dire quello che è giusto e normale dire, o hanno osato dire quello che alcuni ancora vorrebbero sentir taciuto. E cioè che desideravano e amavano un essere umano dello stesso sesso, non di rado un compagno o una compagna di gioco o di gara. Storie sempre più spesso a lieto fine, ma con un ultimo traguardo ancora insensatamente lontano, soprattutto se si considera giustamente lo sport, a ogni livello, luogo e occasione di educazione fisica e di miglioramento spirituale.
Ancora una volta dunque vinca il migliore, ma nel senso del più sincero e del più vero. Una volta per tutte sia fuori gioco chi impone handicap frutto dell’ignoranza e dell’intolleranza. E buona lettura a tutti voi.
Per gentile concessione dell’editore.