Magazine Poesie

Cemento a(r)mato

Da Lacapa

Tra le persone che conosco – che non sono tante, ma nemmeno poche – io sono sempre stata una di quelle che avevano meglio chiaro in testa cosa volevano dalla vita. Io quello che voglio lo so. E lo so perché sono stata talmente fortunata da venire su con una idea ben definita delle parti di me che è giusto ascoltare e di quelle che, invece, non fanno altro che mettermi un freno che non voglio. Secondo me, ci sono delle cose che ti senti dentro, delle cose che non puoi ignorare, perché se le ignori all’improvviso ti spunta un mattone pieno di cemento armato sul petto e ogni volta che respiri lo senti fare su e giù. E pesa.

Per esempio: mi sono sempre sentita dentro che da grande avrei dovuto scrivere per mestiere, raccontare storie, guardare il mondo con gli occhi della gente. Quando lo dico in giro, quelli che hanno fatto della logica il loro punto forte mi guardano straniti. «Stai parlando di un mestiere», dicono. «Un mestiere si impara, se ammettiamo che tutti abbiano le stesse potenzialità dobbiamo ammettere anche che tutti possano fare i giornalisti», continuano. Il punto non è che tutti possano fare i giornalisti, né che tutti possano fare gli scrittori, né che tutti possano essere in grado di mettere una parola di seguito all’altra senza sbagliare la grammatica. Il punto è che quelli che il male di scrivere ce l’hanno dentro lo faranno sempre con una dedizione che in tutti quegli altri neanche esiste. Quelli che scrivono con il cuore dietro ogni parola mettono un sospiro di sollievo, un dolore che se ne va, una passione che cresce, un’ambizione tutta loro e tutta singolare, non per forza legata ai soldi, ma alla semplice soddisfazione personale di scrivere per aver scritto. Il mestiere lo impari, la passione no. Ed è la passione che ti terrà sempre una spanna più avanti a tutti gli altri. È la passione che non ti fa mollare la presa. È la passione che ti farà sopravvivere alla paura – a volte terribile e dolorosa – di essere sulla strada sbagliata.

Con l’amore è un po’ la stessa cosa. L’amore è una cosa spaventosa. A guardarlo da fuori, a guardare le sofferenze, a pensarci con la testa, l’amore è terribile. L’amore non ti fa dormire la notte, ogni tanto ti mozza il fiato, ti fa stare malissimo, ti fa pensare di dipendere da qualcuno, ti rende incompleto (perché metà – pezzo più, pezzo meno – di te lo regali a un altro), ti fa venire il mal di testa, ti fa piangere. A ragionarci sopra, mi ripeto, l’amore è uno strazio. Ma ha quel nome – «amore» – proprio perché di ragionamenti ce ne puoi mettere dietro pochi. C’era questa battuta che diceva una delle assistenti di dottor House a uno degli assistenti di dottor House nel noto telefilm. Insomma, ci sono questi due colleghi che sono finiti a letto insieme una sera. E lei – patologa, credo – fa a lui: «Il sesso può uccidere – cito da Wikipedia – Sai che succede al corpo umano durante il sesso?! Le pupille si dilatano, le arterie si restringono, la temperatura sale, il cuore corre, la pressione sanguigna va alle stelle, la respirazione si fa veloce e superficiale, il cervello comincia a lanciare impulsi elettrici all’improvviso, spuntano secrezioni da tutte le ghiandole, i muscoli si tendono e hanno spasmi come se sollevassero tonnellate. È violento, è brutto, ed è sporco». Ma poi, dopo tutta questa roba orrenda, arriva il punto: è piacevole.

Quando non perdi tempo a essere terrorizzato dall’amore, dalle persone, dal due per uno (come le offerte al supermercato), l’amore diventa un modo per scrivere le cose a quattro mani. È un male buono, che a tratti ti fa sentire smarrito e a tratti ti riconcilia con il mondo. È un male di qualità. Ho imparato – sì, l’esperienza è quella che è, ma che c’entra? – che ad ascoltarlo sono più felice. Mi sono nascosta per anni, l’ho evitato, ho cambiato strada quando ho rischiato di incrociarlo per sbaglio. Ho sviluppato una risposta ai sentimenti che fa sì che i primi mesi con me siano un inseguimento continuo, una specie di caccia alla volpe. Io scappo, mi divincolo, sguscio via ad ogni girare d’occhi. «Oggi ho da fare, domani pure, dopodomani altrettanto: no, senti, non ci stiamo vedendo un po’ troppo?», dico all’inizio. Ma poi, se uno ha la pazienza di aspettarmi senza annoiarsi, cedo. E di solito il cedimento coincide con la mattina in cui mi sveglio e mi rendo conto che sì, mi sono innamorata.

Forse sono pazza, forse sono infantile, forse sono solo testarda. Oppure, forse, è che so quello che voglio meglio di chiunque altro e ho più coscienza di me di quanta mi se ne attribuisca. Non nelle cose piccole (ci metto interminabili minuti a scegliere il gusto del gelato e se mi si chiede cosa voglio fare una sera la mia risposta standard è «Non lo so»), ma nelle cose importanti sì. Nelle cose che mi riempiono la vita davvero vado dritta come un treno. E non perché sono forte: i cambiamenti, per dire, mi mettono un’ansia pazzesca. E neanche perché sono una gran persona: sono insicura, piango sempre, non so stirare i vestiti, racconto i cazzi miei su internet (ciao zii!), non so usare la logica e mi piace spremere i brufoli. Vado dritta come un treno perché ho ben presente la sensazione del mattone pieno di cemento armato sul petto, e l’ho scoperta in un momento in cui le mie priorità erano tutte sballate. Quello che voglio è non tenermelo addosso, ‘sto pesantissimo aggeggio. Voglio sostituirlo con i pesi legati a quello che amo, che ci sono, esistono, ma sono sopportabili, e danno soddisfazioni. E se nei cantieri i muratori per spostare le robe pesanti si aiutano l’un l’altro non capisco perché nel cuore non possa essere uguale.


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