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Cena e inganno

Creato il 21 settembre 2015 da Nicolamisani

di Edward Frame

Sono le 16 e 25. Percorro la cucina, oltrepassando gli aiuti cuoco, fino alla stanza degli armadietti al primo piano. Mi vesto in dieci minuti. Ne restano altri venti per il “pasto in famiglia” prima che i garzoni smontino tutto. Alle 16 e 55 sono pronto. Lo schieramento è fra cinque minuti — “live at five”. Ricontrollo la mia uniforme, un abito dall’aspetto costoso che mi ha assegnato il ristorante, prima di unirmi al resto del personale di sala al piano di sotto.

Lo schieramento è la nostra riunione finale prima del servizio. I capi riferiscono i cambiamenti del menu e la nostra posizione nella lista dei ristoranti migliori del mondo. A volte ci esaminano. “Il nostro chef dove ha ottenuto la sua prima stella Michelin?”. “Di che tipo di pietra è fatto il pavimento?”. Ma stasera ci si limita ad assaggiare il nuovo vino. Un classico Bordeaux: frutti di bosco, petali di rosa, ciliegie acerbe; acidità medio-alta, tannino soffice. Si abbina bene al maiale.

La sala ha quattro “stazioni”, ognuna con sei o sette tavoli gestiti da una squadra di servizio di quattro persone — il maître, il sommelier, il cameriere e l’aiuto cameriere. In quanto maître, sono responsabile della mia squadra. Mi sono occorsi otto mesi per essere promosso a questa posizione; alcuni maître ci mettono anni.

In più sei aiutanti vagano per la sala, insieme a tre capi. Due controllori stanno in cucina a decidere quando inviare il cibo e dove. Nella maggior parte degli altri ristoranti tre stelle Michelin di New York il sistema è piuttosto simile.

Le porte si aprono alle 5 e 35. Il registro stasera dice 152 coperti. Prima normalmente erano circa 120, ma i proprietari apriranno un nuovo posto nel giro di un mese e hanno bisogno di soldi. Così stasera siamo a 152. Il capo sala la chiama “un’opportunità per più ospiti di sperimentare il ristorante”. Ma è un’ipocrisia, e tutti lo sanno. Trentadue coperti in più significano che dobbiamo produrre otto tavoli in più, due in più nella mia sezione, il che significa che prenderò il taxi per andare a casa alle tre di notte, invece che alle due.

La mia squadra è buona. Non perfetta, buona. Il sommelier conosce il vino, ma nelle serate di piena affonda velocemente. Posso fidarmi del cameriere. L’aiuto cameriere è magnifico. Ogni maître sa che l’aiuto cameriere può salvarti o stroncarti. “Pane, acqua e ritirare i piatti”, tecnicamente l’aiuto cameriere non fa altro, ma uno bravo fa girare bene le cose nella sezione.

Il primo tavolo si siede alle 5 e 31. Stampo e osservo la matricola, un dossier digitale che teniamo su tutti gli ospiti, vecchi e nuovi. Chi sono questi? VIP? (“soigné” è il termine raccomandato). Sono i primi arrivati, quindi so che non lo sono, ma controllo ugualmente. Sono già stati qui? Hanno preferenze per l’acqua? Allergie alimentari? Cibi che amano? Che detestano? Spendono molto in vino?

Li informo del mio ruolo fin dal saluto: una frase graziosa, un gesto delle mani, una pressione dei palmi, qualunque cosa che segnali a tutti i presenti che devono prestare attenzione, che sarò io a dettare i ritmi dell’esperienza di stasera, non loro. “Buonasera”. Grande sorriso. “Preferite sempre l’acqua gasata? O questa volta vi piacerebbe altro?”. L’aiuto cameriere è in piedi accanto alla credenza vicina al secchiello dello champagne, in attesa. Una lieve agitazione delle mie dita dietro la schiena significa bollicine; un movimento fendente, liscia; una rotazione del pugno, acqua con ghiaccio. Come per magia, l’aiuto cameriere arriva con la scelta corretta. “Posso prendervi un momento per descrivere il menu?”.

I maître fanno a gara nel decantare il menu nel più breve tempo possibile. L’essenziale è eliminare le opzioni inutili: la maggioranza della gente vuole solo sentirsi dire cosa fare. Alle 5 e 35 torno al tavolo per prendere l’ordine. Memorizzo la scelta di ogni ospite; scriverla evocherebbe un rapporto “transazionale”, una cosa che voglio evitare. Ogni ospite deve sentirsi speciale. Un minuto dopo detto gli ordini al cameriere, che li trascrive e poi li trasmette mentre io resto in sala.

Nel servizio perfetto, il maître non lascia mai la sala. In seguito, si tratta solo di curare la tavola fin quando porto il conto con un cognac offerto dalla casa, dopo tre o cinque ore, a seconda che scelgano la cena o la degustazione. Lo rifarò tredici volte questa sera.

Marx avrebbe forse definito quest’occupazione “lavoro alienato”, ma l’espressione non è del tutto giusta. La mia esperienza professionale nei ristoranti di classe era contraddistinta da un lavoro duro, ripetitivo e spesso privo di significato. Ma non era completamente “alienante”, non all’inizio. Al contrario, trovavo che il lavoro duro, ripetitivo, per quanto fosse “alienante” in qualche senso astratto o teorico, potesse essere incredibilmente gratificante. Eseguire gli stessi compiti con la precisione di una macchina per tante, tante, tante volte di seguito, come un operaio della fabbrica di spilli di Adam Smith, offriva un genere speciale di godimento. Non c’era riflessione, e alcun dubbio circa cosa mi chiedesse il lavoro, e potevo indulgere per ore nella semplice immediatezza dell’azione.

In cucina, vicino alla porta che conduceva in sala, un cartello sintetizzava il nostro lavoro in forma di comandamento: “Rendilo bello”. Renderlo bello significa ritenerti responsabile di ogni dettaglio. Significa che tutto nel ristorante deve sembrare perfetto — la posizione delle candele sul tavolo, la riga dei tuoi capelli. Tutto conta.

Molti di noi assorbono questo mantra velocemente. Uno dei miei primi incarichi come aiutante fu pulire i cristalli. Lavoravo in una stanzetta, collegata alla lavastoviglie. I cestelli di bicchieri uscivano, io cancellavo i segni dell’acqua o le macchie, e poi, appena finivo un cestello, ne appariva un altro. Andavo avanti per ore, come in un qualche tipo di mito di Sisifo rivisitato per la ristorazione. Dopo due ore mi bruciavano le dita e mi faceva male la schiena. Ma non potevo fermarmi. I cestelli continuavano a uscire. Non ho mai pensato di rallentare. Non c’era tempo. Bisognava renderlo bello. Volevo renderlo bello.

Salii di rango più velocemente del solito. Ogni promozione richiedeva un insieme di competenze nuove, ma meccaniche e rassicuranti. Quando portavo i piatti in tavola, imparai a seguire la regola “alzali a destra, abbassali a sinistra”. I miei movimenti dovevano essere perfettamente sincronizzati con gli altri aiutanti, con le braccia che scendevano insieme come quelle di una bilancia. Per cambiare la tovaglia, prima la stendevo con un ferro da stiro antico, poi sistemavo sulla tavola i cristalli, gli argenti e i sottopiatti, assicurandomi che i marchi di questi ultimi fossero dritti e guardassero l’ospite, il tutto in meno di tre minuti. Un altro aiutante mi suggerì di canticchiare sottovoce il tema di “The Bourne Identity” per tenere la motivazione. Lo feci e aveva ragione. Funzionava.

L’anatra usciva dalla cucina su un carrello speciale chiamato guéridon. I maître la tagliavano a fianco della tavola. Affettare il petto sinistro era facile, ma ottenere il lato destro richiedeva un po’ di destrezza. Non potevi girare l’uccello, cosa che veniva naturale, perché l’ano non doveva mai guardare l’ospite. Lo chef stabilì che sarebbe stato “poco attraente”. Così dovevi invertire le mani, tagliando con entrambe. Non importa quali fossero le tue capacità nel brandire il coltello con una mano o l’altra, occorreva che entrambi i petti fossero nel piatto in meno di un minuto, prima che la cucina spedisse i contorni. Se ti prendeva di più eri costretto a finire il lavoro mentre qualche aiutante si aggirava imbarazzato intorno a te con un vassoio pieno di casseruole e pinze.

*     *     *

Non tutti sanno fare bene questo lavoro. I maître si divertivano a dire che non valeva la pena di imparare il nome di una persona finché non era stato promosso almeno una volta. Ma appena promosso eri ammesso in un circolo chiuso di persone che eccellevano in questo tipo di cosa. La maggior parte del personale di servizio condivideva una cosa — un’alleanza silenziosa contro i nostri superiori: gli ospiti, e i nostri capi. Quando qualcuno parlava del “cigno” dello schieramento, una metafora per il cameriere perfetto, che si industriava instancabilmente sotto la superficie mantenendo un’impressione di assoluta compostezza per l’osservatore casuale, non c’era mai alcun indizio che i capi comprendessero, come noi, la scissione psicologica che il loro simbolo preferito implicava. Ma come maître o camerieri o sommelier il nostro lavoro non era solo servire cibo, era recitare una parte, e lo facevamo con un certo grado di auto-ironia di cui i nostri capi sembravano incapaci.

Uscire dalla parte durante il servizio poteva essere divertente. Potevi giocare a indovinare, “è la figlia o un’escort?”. O il “gioco degli aggettivi”, dove la gara era nel riuscire a vendere un vino usando i qualificativi più irrilevanti possibili. Imparavi a leggere la gente. Ricordo ancora l’uomo d’affari cinesi al Tavolo 43. Quella sera aveva due accompagnatrici: una coppia di giovani donne la cui pelle sembrava stranamente sintetica. Ordinò subito una bottiglia di Krug 1990 — un migliaio di dollari, come niente.

“Posso prendervi un momento per descrivere il menu?”.

“Vogliamo la degustazione”, disse.

Le due donne erano concentrate sui telefonini, indifferenti al nostro scambio. Chiaramente non intendevano mangiare nulla.

“Signore, la degustazione è un’esperienza di cinque ore”. Lo guardai, poi guardai le due donne. “È certo che non vorrebbe passare altrove una parte della serata?”.

Optò per la cena.

Provi un fervore speciale quando il tuo lavoro è proiettare un’aura di calor e ospitalità mantenendo allo stesso tempo una distanza emotiva quasi clinica. Questo gusto dell’inganno era implicito in un’altra metafora popolare fra i grandi capi: il rossetto sul maiale. L’essenziale in una cena di classe, mi disse un capo, era di assicurare che l’ospite non notasse mai il maiale, solo il rossetto. Gli ospiti volevano credere ciò che volevamo far credere; volevano credere che tutto fosse perfetto. Ma nel momento in cui qualcuno notava una minima imperfezione — una macchia sul burro, un’impronta sulla forchetta — altre imperfezioni diventavano improvvisamente visibili, minacciando l’illusione che tutti lavoravamo per mantenere.

In questo parco giochi per super-ricchi, ero una chaperon sovra-pagata che indossava un abito su misura. Gli eccessi di cibo erano comuni. Lo era altrettanto il sesso; più di una volta abbiamo dovuto interrompere coiti nel bagno. Una volta una donna chiese di lasciare il suo bambino al guardaroba. Quando il maître di sala le spiegò che la cena sarebbe durata almeno tre ore, lo guardò fissa, senza battere ciglio. “Sì, lo so”. Uomini adulti con abiti di Zegna e Ferragamo sedevano al bar cantando “Siam l’uno per cento!”.

Questa vita grottesca notturna era quasi eccitante. Ma qualcosa accadde dopo avere passato troppe notti a consegnare conti con quattro o cinque cifre su vassoi d’argento. L’alienazione subentrò davvero. Immagino che i seduttori sperimentino qualcosa di simile. Impari cosa vuole la gente da te e, per un po’, ti senti euforico  a fare tutti i gesti giusti: la battuta con i tempi perfetti, il sorriso ironico. Ma, giù nel profondo, non senti niente. Finché qualcosa non ti costringe a tornare di nuovo alla realtà.

*     *     *

Quando l’ospite cade, sono in piedi accanto alla credenza nei pressi del bar. È pranzo. La sala è piena. Non lo vedo andare giù, ma fa un suono forte e ansimante prima di finire sul pavimento. Lo conosciamo tutti. È un habitué. Sarà stato al ristorante centocinquanta volte e ordina sempre la stessa cosa: doppia vodka con ghiaccio per cominciare; primo piatto aragosta; secondo piatto anatra; niente dolce. Di solito viene con la moglie, che si lamenta senza remore della sua dieta. Dà ottime mance e, come la maggior parte degli habitué, è considerato da tutti un cafone. Ma ora, mentre è steso lì, con la pelle che sta assumendo un certo colore bianco-grigiastro, è impossibile provare qualcosa per l’uomo che ha appena avuto un infarto nella nostra sala che non sia la pietà.

Si trova sul pavimento lucido del terrazzo, steso sulla schiena. La gente lo fissa, non del tutto sicura di cosa fare, con i pensieri che chiaramente si alternano fra la preoccupazione e quell’altro pensiero più brutto — ho aspettato tre settimane per questa prenotazione e mi stanno guastando l’esperienza. Tutto ciò che portava a questo momento era stato orchestrato con tanta cura: i tempi delle portate, le pieghe precise di ogni tovagliolo, il livello di tutti i bicchieri d’acqua. Ma non questo. I camerieri, abitualmente composti, sono visibilmente scossi. Come è possibile ragionevolmente dilungarsi sulle virtù del Bordeaux della riva sinistra accanto a un corpo?

Non è possibile, penso, quindi mi rivolgo al mio capo e gli chiedo: “Che devo fare?”. Presumo qualcuno abbia chiamato un’ambulanza. Il capo ha appena finito di spingere in fretta un carrello dello champagne davanti al possibile morto sul pavimento, un debole tentativo di nasconderlo ai clienti vicini. Nulla nel manuale di servizio gli può dire come rispondere alla mia domanda. Non era pianificato; il momento richiede vera empatia, vera comprensione umana, e non la versione contraffatta con cui lui e io ci guadagniamo da vivere.

“Vado ad alzare la musica”, dice. “Continua come prima”.

Così faccio. Continuo, versando vino, declamando i cibi e portando conti scritti a mano finché i paramedici arrivano, dieci minuti dopo. Il capo regala il conto alla gente seduta vicino “all’incidente”. Nessun altro sembra occuparsene.

L’ospite, appresi qualche giorno dopo, sopravvisse. Ma non tornò mai al ristorante. Né lo feci io, dopo essermene andato qualche mese più tardi per iniziare il dottorato. Alla fine, “renderlo bello” per ottanta ore alla settimana mi faceva sentire vuoto e stanco. Come la moglie dell’habitué amava dire quando ordinava il suo solito pranzo, “mangiare così ti fa male”.

Articolo originale. Edward Frame sta svolgendo il suo dottorato alla New School of Social Research, a New York. Dato che ci sono solo sei ristoranti a tre stelle in città, la stampa ha individuato subito il nome del locale, che è l’Eleven Madison Park, nella zona del Flatiron, e ha il cartello “make it nice”.


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