In Centrafrica non c’è pace. Lo apprendiamo dai media ma, più spesso, dalla stampa missionaria, con dovizia di particolari e suggerimenti critici, rispetto all’informazione generalista.
I giochi di potere politici e, in discreta misura, anche le differenze etnico-religiose hanno dato tormenti e continuano purtroppo a darli, da circa un anno e più, alle popolazioni locali del Centrafrica.
E tanto nelle città che nei villaggi rurali. Nel nord e nel sud del Paese senza differenza alcuna.
Basterebbe solo ricordare che cosa sono stati, almeno nella fase iniziale della conflittualità, i militari ciadiani, mercenari assatanati e, in seguito, per fortuna, allontanati d’imperio dal Paese.
Ora, dietro a tutto ciò, dietro a tante gravose sofferenze, non c’è altro che il desiderio smodato di una “cricca” politica, che male si cela, d’impossessarsi delle ricchezze del sottosuolo, cui è possibile affiancare, senza tema di smentita, il traffico d’armi che loschi personaggi, autoctoni e non, nonostante l’embargo, continuano indisturbati a praticare.
Insomma c’è un garbuglio misterioso, che poi lo è indecifrabile ma solo agli occhi degli sprovveduti, e che è difficile da sbrogliarsi.
Sarà possibile che si arrivi a mettere la parola “fine” forse negli anni a venire.
E noi ce lo auguriamo per la gente comune, quella che, senza colpa, paga un prezzo troppo alto.
Ma al momento è così. E , intanto, la gente muore di tutto.
Muore di fame, di malattie (non si trovano semplici medicamenti di base, né medicine) e di violenze gratuite.
Sempre la gente si ritrova, inoltre, senza un’abitazione(gliel’hanno distrutta) in cui potersi riparare da pericoli d’ogni genere (saccheggi e stupri) e/o dalle bizze del clima.
I campi profughi straripano e sappiamo cosa sono per chi, non avendo altro, è costretto a risiedervi.
Le organizzazioni umanitarie internazionali ma, in particolare, alcune congregazioni religiose danno il loro apporto certo, per quel che possono, per soccorrere i bisognosi.
E lo fanno, specie queste ultime, mettendo a disposizione le proprie strutture, chiese ed edifici in genere, come possono essere, ad esempio, le scuole.
Scuole, quelle che sono state costruite in loco, negli anni di permanenza delle stesse congregazioni quando era possibile allora, in tempi di pace, dare un contributo senza intralci.
Ma anche le scuole, ultimamente, danno fastidio a chi guarda alla cultura come un processo di liberazione e, perciò, sono state chiuse.
Mi riferisco a quelle , rette dai Salesiani, di Galabadja e di Damala, che dovevano servire ad accogliere giovani e giovanissimi e toglierli in questo modo dai pericoli della strada, oltre che allo scopo di non fare perdere loro ulteriori ore d’istruzione e di formazione.
E questo è stata opera degli anti-balaka.
Perché la scuola è importante in un contesto di guerra permanente come il Centrafrica?
Lo è di certo dappertutto. Ed è superfluo dirlo. Qui, però, lo è un po’ di più in quanto bambini e ragazzi allo sbando possono essere, e spesso lo sono, facilmente preda di chi li arruola nelle file dei “bambini-soldato” con le note conseguenze, che non è difficile immaginare.
E,alle bambine e alle ragazze, può andare anche peggio.
Chiudere la scuola, insomma, significa consentire di tutto e di più al nemico senza scrupoli. E, quando si è costretti a farlo, come in questo caso per le scuole di Galabadja e di Damala, lo si fa con la morte nel cuore.
Il quadro della situazione è, dunque, abbastanza drammatico. Ciò che è fattibile da parte dell’opinione pubblica internazionale(e noi ne siamo parte) è il non essere passiva dinanzi a certi eventi. Mobilitarsi.
Trovare modalità perché certi fattacci non passino sotto silenzio e perché le autorità preposte al cambiamento, sollecitate, agiscano.
Di questo, accanto all’aiuto solidale,che è fondamentale lì dove tutto manca, bisogna convincersi. E non dichiarare mai resa. Perché la resa diviene complicità
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)