Riportiamo qui di seguito il testo della relazione del direttore di “Eurasia”, Claudio Mutti, esposta in occasione della conferenza “CONDUCĂTOR, l’edificazione del socialismo romeno”.
Attraverso una serie di dati desunti dalle culture tradizionali, Mircea Eliade ha mostrato che “l’uomo delle società premoderne aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre” (1).
Questa concezione, lungi dall’essersi estinta insieme con la visione arcaica del mondo, è sopravvissuta in maniera più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti: basti pensare al fatto che ancor oggi la Cina è chiamata dai suoi abitanti Chong-kuo, ossia “Paese del Centro”, e che sono parecchi i paesi e le regioni che vengono pensati come centrali rispetto allo spazio geografico al quale appartengono, cosicché abbiamo un’Europa centrale o un’Europa di Mezzo (Mitteleuropa, Zwischeneuropa), un’Italia centrale, un’Asia centrale, un’America centrale ed anche una République Centrafricaine.
Anche la Romania rientra nel novero dei paesi ai quali è stata attribuita una posizione centrale. Da un’analisi elementare dei dati forniti da quella che Eliade chiama la “geografia oggettiva”, emergono in tutta la loro evidenza quei fondamentali fattori naturali e culturali che nel corso della storia hanno determinato la centralità dello spazio romeno.
I principali elementi naturali della geografia romena sono i Monti Carpazi, il Danubio e il Mar Nero. I Carpazi, che sono stati definiti “colonna vertebrale del territorio e del popolo romeno” (H. Grothe), chiudono entro un anello la Transilvania, la quale, nella visione dei geopolitici romeni, rappresenta per il Paese quel Kernland (“regione nocciolo”) e quel Mittelpunkt (“punto centrale”) di cui parlano i classici del pensiero geopolitico.
I fattori culturali caratteristici sono l’identità neolatina, in virtù della quale il popolo romeno appartiene ad una famiglia linguistica che in Europa si estende fino al Portogallo ed al Belgio, e la confessione ortodossa, per cui la Romania rientra in un’area di dimensioni eurasiatiche, estesa da Belgrado a Vladivostok.
La simultanea appartenenza alla famiglia ortodossa e alla famiglia neolatina costituisce un potenziale elemento di raccordo tra le confessioni cristiane occidentali e quelle del cristianesimo orientale.
La centralità della Romania emerge ulteriormente se si considera che la Transilvania è una regione storicamente mediana, in quanto dopo la battaglia di Mohács fu un principato indipendente che svolse il ruolo di Stato-cuscinetto fra l’impero absburgico e l’area ottomana. Ma non solo: è una regione culturalmente centrale, poiché costituisce il punto di contatto storico di tre settori della geografia linguistica europea (quello neolatino, quello germanico e quello ugrofinnico) e delle tre principali confessioni cristiane (la ortodossa, la cattolica, la protestante).
Questa posizione centrale della Romania è stata sottolineata in vario modo dagli studiosi di geopolitica, romeni e non romeni.
Negli anni Trenta del secolo scorso il fondatore della scuola geografica romena, Simion Mehedinţi (1869-1962), scrive che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata quale è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica ad agevolare le relazioni fra i paesi industriali dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino e del Medio Oriente dall’altra.
Ho citato Simion Mehedinţi; ma nel periodo interbellico l’immagine di una Romania ubicata in una posizione geograficamente cruciale è generalmente condivisa dagli studiosi europei di geopolitica, molti dei quali (come Giselher Wirsing o Emmanuel de Martonne) inseriscono la Romania nello spazio centroeuropeo.
Nicolae Alexandru Rădulescu (1905-1989), analizzando la posizione geostrategica della Romania a partire dallo statuto geopolitico del Danubio, colloca la Romania nell’Europa centrale, assieme a Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria.
Anche il geopolitico Ion Conea (1902-1974), che abborda la geopolitica come una scienza delle relazioni tra gli Stati e delle loro pressioni reciproche, all’inizio degli anni Quaranta ritiene essenzialmente centrale la posizione geopolitica della Romania. “Lo Stato romeno – scrive Conea – non può essere definito – per la sua posizione – uno Stato periferico, ma uno Stato per eccellenza centrale” (2).
Sempre negli anni Quaranta, anche per Vintilă Mihăilescu (1890-1978) la Romania occupa uno spazio centrale, in quanto si trova nel punto in cui convergono linee di tendenza provenienti dall’Europa centrale, dai Balcani e dalla Russia. Mihăilescu evidenzia il ruolo di crocevia geografico e geopolitico della Romania e ne sottolinea la capacità di attenuare e neutralizzare i conflitti.
La collocazione della Romania in un crocevia, cioè in un punto di intersezione dei grandi imperi, è ribadita anche dallo statista Gheorghe I. Brătianu (1898-1953), l’opera del quale pone in rilievo la funzione geostrategica delle tre componenti che definiscono lo spazio geografico romeno: i Carpazi, il Danubio e il Mar Nero.
“Noi viviamo qui ad una confluenza di strade (“la o răspântie de drumuri”), ad una confluenza di culture e, purtroppo, ad una confluenza di invasioni e di imperialismi. Noi non possiamo essere separati dall’intero complesso geografico che (…) delimita e confina il nostro destino tra i due elementi che lo dominano: la montagna e il mare. Quello che vorrei fosse chiaro è che, per capire il nostro passato, dobbiamo capire innanzitutto l’intero complesso geografico, storico, geopolitico, di cui esso fa parte” (3).
In seguito, negli anni della Guerra Fredda, venne spesso citato un brano che il geopolitico britannico Halford John Mackinder (1861-1947) aveva posto a conclusione di un suo studio del 1919, Democratic Ideals and Reality: “Chi guida l’Europa orientale domina il Heartland [lett. "la regione-cuore", cioè il "territorio centrale", in sostanza la Russia]. Chi guida il Heartland domina il World Island [l'Isola-Mondo, originale espressione con cui Mackinder designava il Continente Antico: Eurasia ed Africa]. Chi guida l’Isola-Mondo domina il mondo”.
Nel periodo della Guerra Fredda molti analisti riferirono questa celebre formula all’importanza dell’Europa orientale nel confronto bipolare USA-URSS. La Romania veniva dunque considerata come parte integrante di quello spazio che si trova al centro della lotta per il potere mondiale.
Ma qual era, nel periodo succeduto alla Seconda Guerra Mondiale, il punto di vista dei diretti interessati circa la posizione del loro Paese?
Nella Romania postbellica, la scuola geopolitica romena dovette bruscamente cessare le proprie attività, poiché in tutto il cosiddetto “campo socialista” la geopolitica era ufficialmente messa al bando, in quanto assimilata alla Geopolitik di Karl Haushofer e degli altri geopolitici del Terzo Reich e quindi condannata come “pseudoscienza nazista”.
D’altra parte, anche nel cosiddetto “mondo libero” la geopolitica era aspramente criticata in ambito accademico, nonostante venisse studiata negli ambienti militari e dagli studiosi di strategia. In Italia, per esempio, la rivista “Geopolitica” dovette cessare le pubblicazioni in seguito all’invasione angloamericana, per cui il suo ex direttore Ernesto Massi, padre della geopolitica italiana, poteva scrivere nel 1947: “La geopolitica è prassi prima di essere dottrina; i popoli che la praticano non la studiano; però quelli che la studiano potrebbero essere indotti a praticarla: è perciò logico che i popoli che la praticano impediscano agli altri di studiarla” (4).
Tornando alla Romania, è vero che “l’instaurazione del regime comunista comportò una discontinuità di oltre 45 anni nelle preoccupazioni geopolitiche [e molte opere di geopolitica] furono tolte dal circuito scientifico” (5); tuttavia la geopolitica continuò ad esistere anche nel periodo comunista: la si insegnava, in maniera informale, nei corsi di strategia, geostrategia, storia militare, arte militare.
Ma, come diceva Ernesto Massi, i popoli che la praticano non la studiano. Infatti anche la Romania socialista, pur senza avere istituito corsi ufficiali di teoria geopolitica, nella pratica delle relazioni internazionali si ispirò ad una sua coerente linea d’azione, ispirata ad un preciso progetto geopolitico.
Ciò avvenne quando, in seguito alla svolta avviata da Gheorghe Gheorghiu-Dej e condotta a termine da Nicolae Ceauşescu, la Romania mirò a diventare un Paese autonomo, capace di svolgere una sua specifica ed originale funzione nella politica internazionale e di acquisire quella centralità che le avevano assegnata le elaborazioni geopolitiche interbelliche.
La nozione di centralità, alla quale i geopolitici d’anteguerra avevano fatto ricorso per individuare la collocazione della Romania rispetto agli altri Stati, con Ceauşescu tese ad assumere un significato di sostanziale equidistanza, tant’è vero che Bucarest, pur non mettendo mai in discussione la sua appartenenza al “campo socialista”, riuscì ad intessere una fitta rete di relazioni con paesi appartenenti a schieramenti internazionali diversi. Esemplare, in proposito, fu la posizione romena nel quadrante balcanico, che può essere riassunta con le parole dello stesso Conducător:
“La Romania sviluppa buone relazioni con tutti i paesi socialisti dei Balcani: con la Bulgaria, (…) con la Repubblica Popolare d’Albania (…) Per quanto concerne le nostre relazioni con la Jugoslavia socialista, vicina ed amica, desidero sottolineare che esse conoscono uno sviluppo continuo (…) Coerente con la sua politica di estensione dei rapporti con tutti i paesi, indipendentemente dal loro ordinamento sociale e politico, la Romania si pronuncia per lo sviluppo delle relazioni con la Grecia e con la Turchia. (…) Anche se Romania e Turchia appartengono ad alleanze politiche e militari diverse, nelle conversazioni coi dirigenti turchi abbiamo concordato nella convinzione che le differenze di sistema sociale e politico, l’appartenenza ad un’alleanza o ad un’altra non possono – e non devono – impedire lo sviluppo di relazioni normali tra Stati” (6).
A questa equidistanza positiva, finalizzata ad allacciare e rinsaldare le relazioni tra paesi europei appartenenti ai due diversi schieramenti internazionali, corrispose la presa di posizione con cui la Romania, anziché prender partito nel dissidio russo-cinese, si propose di collocarsi super partes, anzi, inter partes, e svolgere una funzione di raccordo tra le due grandi potenze eurasiatiche. Tale presa di posizione fu così illustrata da Ceauşescu nel corso di un’assemblea internazionale di partiti comunisti ed operai:
“Il nostro Partito, già molti anni fa, ha osservato con preoccupazione l’acuirsi della polemica pubblica e l’aggravarsi delle divergenze tra i partiti comunisti ed operai, in particolare tra il Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il Partito Comunista Cinese. (…) Nella primavera del 1964 il Partito Comunista Romeno si è rivolto tanto al Partito Comunista dell’Unione Sovietica quanto al Partito Comunista Cinese con un appello a non estendere ed acuire la polemica, ad agire per trovare vie di soluzione delle questioni su cui esistono divergenze. (…) Come abbiamo dichiarato pubblicamente e come abbiamo detto ai compagni cinesi, noi non siamo d’accordo con le accuse che essi fanno al Partito Comunista dell’Unione Sovietica e ad altri partiti comunisti. Contemporaneamente, abbiamo mostrato ai compagni sovietici ed ai compagni di altri partiti fratelli che non siamo d’accordo neanche con le accuse che essi fanno al Partito Comunista Cinese” (7).
L’aspetto – a mio parere – negativo dell’equidistanza romena si manifestò invece allorché il Conducător, in seguito alla visita di Nixon a Bucarest, vestì i panni dell’intermediario ed operò ai fini del riavvicinamento cino-americano, che Henry Kissinger riteneva necessario per la sua strategia antisovietica.
Altrettanto negativa fu la posizione di equidistanza e di neutralità assunta da Bucarest nel 1967, in seguito all’aggressione sionista contro i paesi arabi. Mentre gli Stati del blocco socialista (che pure avevano gravi colpe per quanto riguarda la nascita del regime d’occupazione sionista in Palestina) si schieravano formalmente col mondo arabo e ritiravano le rappresentanze diplomatiche da Tel Aviv, la Romania colse l’occasione per accentuare la propria distanza dall’URSS, mantenendo e coltivando le relazioni col regime sionista insediatosi in Palestina. Nel progetto ceauscista, l’equidistanza tra l’aggredito e l’aggressore offriva alla Romania la possibilità di svolgere un ruolo di mediazione che ne avrebbe confermato la posizione di Stato indipendente e sovrano, impegnato nell’attività di arbitro di pace. Cito ancora Ceauşescu:
“La Romania non ha nessun genere di interessi speciali nel Vicino Oriente. La sua posizione nel problema della guerra tra i paesi arabi ed Israele parte dalle realtà create come conseguenza dello sviluppo del mondo postbellico: l’esistenza degli Stati arabi indipendenti e lo Stato d’Israele. Come amici dei popoli arabi, abbiamo sempre manifestato la nostra solidarietà e il nostro sostegno alle loro aspirazioni di unità nazionale, di progresso economico e sociale, di indipendenza nazionale. (…) Ma desideriamo dire onestamente agli amici arabi che non comprendiamo e non condividiamo la posizione di quei circoli che si pronunciano per la liquidazione dello Stato d’Israele. (…) A nostro parere, l’unica via razionale per risolvere il conflitto nel Vicino Oriente è il ritiro immediato delle truppe israeliane dai territori occupati, lo svolgimento delle trattative con la partecipazione delle parti interessate per la soluzione delle controversie” (8).
Per comprendere bene la posizione ceauscista circa il Vicino Oriente, riassumibile nei termini dell’odierna formula “due popoli, due Stati”, bisogna poi tener presente un fatto determinante: dopo la seconda guerra mondiale gran parte degli ebrei residenti nel paese danubiano era andata a stabilirsi in Palestina, cosicché i Romeni erano indotti a vedere, nell’esistenza di una colonia ebraica lontana dai loro confini, la soluzione di quel problema che li aveva a lungo assillati. “Per i Romeni la Romania, per i giudei la Palestina”: era stata questa, fin dagli anni Venti del secolo scorso, la parola d’ordine di un popolo esasperato dalla massiccia invasione ebraica.
Questa linea, che a dire il vero nel periodo interbellico non aveva trovato in Romania soltanto sostenitori (9), fu seguita con convinzione da Ceauşescu, il quale, mentre da un lato allontanò gli ultimi ebrei dalle posizioni di potere che ancora occupavano nel Partito e nello Stato e favorì l’emigrazione ebraica dalla Romania, dall’altro adottò nei confronti del regime sionista una posizione di sostanziale benevolenza.
Questa tattica compromissoria non riuscì tuttavia ad impedire che personaggi riconducibili all’ambiente sionista quali Silviu Brucan e Petre Roman, avvalendosi di una rete internazionale di complicità ormai definitivamente chiarite, riuscissero a tessere in Romania le fila della congiura sfociata nel colpo di Stato del 1989.
Circa il significato politico di tale evento, si può dire che esso rappresentò la liquidazione definitiva di quella posizione di indipendenza e di centralità che il nazionalcomunismo si era sforzato di rivendicare alla Romania. Il ruolo svolto dai servizi segreti sovietici nella “rivoluzione” del 1989 aveva ovviamente lo scopo di recuperare all’egemonia moscovita lo spazio romeno; ma, alla fin dei conti, il sostegno fornito da Mosca al movimento eversivo si risolse in un attivo contributo alla conquista statunitense dell’Europa orientale. Così, anche in Romania, Gorbaciov lavorò, se non per il Re di Prussia, per il Presidente americano.
Nel ventennio successivo al 1989, la Romania è stata oggetto del disegno egemonico statunitense, che la ha assegnata d’autorità alla cosiddetta “New Europe”, cioè al gruppo di quei paesi ex comunisti che, al momento dell’aggressione angloamericana contro l’Iraq, si misero a disposizione di Washington, dissociandosi in tal modo dalla politica della Francia e della Germania.
Nel prevedibile futuro confronto delle potenze atlantiche con la Russia, è molto probabile che la Romania, assieme alla Bulgaria, alla Repubblica Ceca, alla Polonia ed agli staterelli baltici, diventi il tassello di un potenziale “cordone sanitario” antirusso. In un tale contesto geostrategico, la Romania svolgerebbe, in particolare, il ruolo di sentinella della NATO sul Mar Nero, più o meno come la dirimpettaia Georgia, mentre gli altri paesi dell’Europa centro-orientale egemonizzati dall’Alleanza Atlantica potrebbero servire ad impedire alla Russia l’accesso al Baltico e all’Adriatico.
Se non vuole ridursi ad essere una semplice pedina della strategia atlantista, la Romania deve necessariamente ridefinire la propria identità geopolitica ed assumere la funzione più conforme alla sua posizione, proponendosi non come sentinella dell’Occidente, ma come elemento di raccordo, come ponte tra l’Europa e la Russia.
Ma purtroppo l’attuale classe politica romena non sembra affatto in grado di far proprio, un progetto geopolitico di questo genere.
NOTE:
1. M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
2. Ion Conea, “Geopolitica şi Geoistoria”, III, 1942, pp. 64-100. Il brano è stato ripreso in “Geopolitica”, cit., p. 29.
3. Gh. I. Brătianu, Chestiunea Mării Negre, Curs 1941-1942, Universitatea Bucureşti, Facultatea de Filozofie şi Litere, ed. Ioan Vernescu, pp. 11-12.
4. E. Massi, Processo alla Geopolitica, “L’ora d’Italia”, 8 giugno 1947.
5. V. Simileanu – R. Săgeată, Geopolitica României, Top Form, Bucureşti 2009, p. 106.
6. M.-P. Hamelet, Nicolae Ceauşescu. Biografie şi texte selectate, Editura politică, Bucureşti 1971, pp. 215-216.
7. M.-P. Hamelet, op. cit., pp. 186-188.
8. M.-P. Hamelet, op. cit., pp. 220-221.
9. Cfr. C. Mutti, Il dibattito sulla “soluzione” sionista negli ambienti nazionalisti europei degli anni Trenta, in: H. de Vries de Heekelingen, Israele. Il suo passato, il suo avvenire, Effepi, Genova 2004, pp. 11-13.