Riporto la bella riflessione di Valerio Droga, nata da una recente cronaca palermitana, sorta di ‘giallo’ miracoloso. Con un taglio multiculturale e interreligioso si mostra come la continua ricerca di nuovi santi, eroi e star dello spettacolo in cui credere nasconda spesso un meccanismo psicologico per giustificare le proprie inettitudini. La vera devozione dovrebbe riscoprire la natura divina, la naturale vocazione alla santità insita in ciascuno di noi.
di Valerio Droga
In questi giorni, a Palermo, nel quartiere popolare del Capo, avviene un fatto che ha dell’eccezionale: dal campanile della chiesa di Santa Maria della Mercede, si vede al tramonto lasagoma di una suora in preghiera. Fedeli e semplici curiosi accorrono a frotte, tutti vedono la figura e vi sono foto e video che l’hanno immortalata. C’è chi, dotato di binocolo, giura di avere osservato i tratti del viso, chi, recandosi lassù, non ha visto nulla benché, contemporaneamente, da sotto, la folla continuava a vederla. La Chiesa, con la sua proverbiale prudenza e scetticismo, sospende ogni giudizio, ma la devozione popolare ha già una nuova santa a cui affidare le proprie richieste e raccomandazioni personali.
Non intendo qui entrare nel merito: che si tratti di una santa o di un’anima tormentata che vaga in cerca di pace, che sia un riflesso o un ologramma ben architettato, magari da un art performer, poco importa, ciò che voglio sottolineare è invece un fenomeno sociologico, quello dell’eterna ricerca di idoli, siano santi, divinità, star del cinema o della musica. La gente cerca la perfezione, idealizzandola, ipostatizzandola in qualcuno all’infuori di sé. Il tutto per compensare (e giustificare) la propria inettitudine, la bassa opinione che si ha di se stessi, rafforzando, inoltre, un malsano senso di colpa e di inadeguatezza. Facendo ciò, tuttavia, non si fa altro che autocondannarsi a non elevarsi mai di una spanna, rimanendo per terra a guardare col naso all’insù, come quell’aquila che, allevata da una gallina, credette per tutta la vita di essere un pollo e non spiccò mai il volo, limitandosi ad ammirare l’estrema eleganza delle altre aquile in cielo (Anthony De Mello, Messaggio per un’aquila che si crede un pollo).
Feuerbach, capovolgendo il suo maestro Hegel, in una prospettiva laica e dichiaratamente atea, chiarisce come la creazione, da parte dell’uomo, di un dio esterno, quale summa di tutte le qualità migliori, non ha fatto altro che alienare da sé tutte quelle qualità ‘divine’, condannando l’umanità stessa alla miseria morale. Riappropriarsene non significa però negare necessariamente dio, come sosteneva invece il filosofo tedesco, ma risvegliarlo dentro di sé, riscoprire le qualità divine al proprio interno, ricongiungendoci al Divino.
Il culto dei santi, diretta derivazione del culto pagano degli eroi e mai estirpato dalla Chiesa, crea questo equivoco: i santi, anziché essere dei modelli per i cristiani, diventano un alibi per non elevarci mai al loro livello: “Non potrò mai essere come lui, lui era un santo!”, come a dire: “Lui era un dio, mica un uomo!”. Eppure, per i cristiani, perfino Dio si è fatto uomo per dimostrare di cosa l’umanità potesse essere capace se solo aprisse le porte a lui: questa, in fondo, è la “buona notizia”, letteralmente il vangelo.
Quello che voglio dire è che bisognerebbe cercare la santità, la perfezione e – mi si consenta di dire – la divinità dentro di noi, per quanto difficile sia, e invece ci rinunciamo accontentandoci di cercarla altrove. È un meccanismo psicologico e un fenomeno sociale al tempo stesso. Faccio un esempio molto vicino: il nuovo papa Francesco, col suo atteggiamento, le sue parole e il suo sorriso, ha catturato milioni di fedeli, al punto da spingere ad affrontare ore di veglia, file interminabili, calche di gente solo per poterlo vedere di presenza, di avvicinarsi al suo cospetto. C’è della devozione in tutto questo che, a mio parere, non ha nulla di cristiano. Se questo papa ha messo in campo la spontaneità e la semplicità, scendendo dal ‘pulpito’ per abbracciare (anche fisicamente) la gente, è per sottolineare che non si tratta di un superuomo, un santo o un ponte col Divino, ma ‘solo’ un uomo e, dunque, che tutti gli uomini possono essere come lui: insomma, cerca di dare l’esempio, come a dire: “Vi piace come sono? Allora cercate di essere come me!”.
La superstizione popolare e la scarsa propensione a perfezionarsi, però, fraintende questo messaggio ed è pronta a farci compiere enormi sacrifici senza ricevere alcun beneficio se non quello masochistico della sofferenza. Ciò non toglie che non ci si possa circondare di persone sante, capaci di trasmetterci pace, gioia e benessere fisico, mentale e spirituale, ma a patto di riconoscere anche la perfezione dentro di sé. Per sentirsi veramente incom-unione con un’altra persona se ne deve riconoscere la comune natura, altrimenti il legame che si instaura è di dipendenza e subalternità, con enormi danni psicologici, consolidando atavici sensi di colpa e inferiorità.
Gesù stesso ha stigmatizzato certi comportamenti masochistici, come quando, a proposito del digiuno, afferma che dà giovamento se lo si fa con gioia, ma se deve essere un sacrificio non solo non porta giovamento, ma danno.
E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Mai la sofferenza ha portato alla vera santità, a maggior ragione se ostentata, anzi – lo ha detto questo stesso papa – un vero cristiano non può essere triste, deve esprimere pura gioia, altrimenti è fuori strada. A cosa servono dunque i sacrifici, i fioretti, gli estenuanti pellegrinaggi, le interminabili preghiere e veglie se poi non troviamo la divinità dentro di noi, la nostra essenza spirituale? Dio si avvantaggia di queste nostre sofferenze? Naturalmente no, sarebbe meschina un’idea sadica di Dio! Lo dice il Vangelo e lo dicono le altre religioni, senza lasciare spazio a fraintendimenti, benché ve ne siano. I sacrifici fini a se stessi, anzi, a volte, ci portano a consolidare un senso di misantropia, di superiorità sugli altri, come certi presunti falsi maestri spirituali o pseudo intellettuali, che disprezzano l’umanità perché dedita alle cose ‘basse’ anziché averne amore. Questo eccesso di rigidità spirituale, riscontrata da Gesù in scribi e farisei, è un altro modo per allontanarci da Dio, ovvero per allontanare Dio da noi, espellerlo dal nostro tempio interiore, per ingrossare il nostro ego.
Ciò non significa che non si possa adorare Dio, che non si possa rendergli omaggio, fosse anche con inchini, preghiere e offerte, purché questa devozione serva a risvegliare la divinità dentro di sé, le qualità divine, riappropriandosene. Gesù stesso lascia fare quella donna che utilizza l’olio profumato preziosissimo per ungergli i piedi, asciugandoli poi con i propri capelli e, al tempo stesso, disapprova Giuda, il cassiere del gruppo, per avere stigmatizzato questo ‘spreco’, visto che dalla vendita di quell’olio avrebbero potuto ricavare soldi per aiutare, materialmente, i poveri. Ma quell’omaggio era gradito e utile, non perché ne avesse bisogno Gesù ma la donna: avendo riconosciuto la divinità di Cristo, in questo modo, aveva riconosciuto e risvegliato anche la propria!
La Bhagavad Gita, antico testo indù che riporta gli insegnamenti di Khrisna, il dio della gioia, definisce la ananya bhakti, ovvero la devozione senza divisioni, devozione in com-unione. Così, Khrisna dice al suo devoto Arjuna:
Questo Spirito supremo si raggiunge con una completa devozione: questo Spirito supremo si trova in tutti gli esseri e pervade ogni cosa.
Quella che riscontriamo in molti casi è la semplice bhakti, devozione in cui c’è alterità: l’uomo da una parte e dio dall’altra. A cosa serve? A nulla. Ci può rendere buoni ma non certo santi. Non serve a nulla all’induista rendere omaggio a Shri Ganesha, il dio bambino, se non gli fa spazio e lo fa rinascere dentro di sé, se non scopre le qualità di questo archetipo, di questo modello divino che ci ha forgiato, ovvero l’innocenza e la pura gioia. Così non serve a nulla, per fare un altro esempio, a un cristiano inginocchiarsi di fronte a Cristo in croce se non mette in croce il proprio ego e i propri condizionamenti, il proprio giudizio, se non risveglia cioè la propria capacità di perdonare (se stessi e gli altri), se non diventa egli stesso perdono.
Shri Mataji, la fondatrice di Sahaja Yoga (“yoga spontaneo, innato”, cioè già potenzialmente dentro di noi), sottolinea questa distinzione tra bhakti e ananya bhakti, evidenziando come la prima sia puro esercizio formale, gesto meccanico, ‘senza anima’, e solo la seconda sia la forma di devozione capace di innalzarci sopra noi stessi, sopra i nostri limiti, di avvicinarci realmente a Dio. Per farlo occorre essere in unione col Divino(yoga significa proprio “unione”), con l’esperienza chiamata “realizzazione del Sé”, che altro non è che la riscoperta dello Spirito dentro di noi, il riflesso di Dio in noi, possibile grazie al risveglio della Kundalini, l’energia primordiale che ci ha creato e ci custodisce dall’alba dei tempi. Il Corano afferma che Iddio è vicino a noi più di quanto lo siamo noi stessi. La Kundalini ha la capacità di risvegliare, a sua volta, le deità che risiedono dentro di noi, quindi le qualità archetipiche che ci hanno forgiato come stampi. Dio ci ha fatto “a Sua immagine e somiglianza“, dice la Bibbia.
Le deità non sono dunque entità a sé stanti, magari in competizione reciproca, bensì archetipi, qualità che nel momento della creazione si sono fissate anche nel creato, come la mano dell’artista è individuabile nella sua opera. Tuttavia, spesso, ha degenerato nelpoliteismo in senso stretto, in cui si immagina una moltitudine di divinità in contrasto, magari per giustificare le lotte fra i devoti di questo o quel dio, come avviene per certe tifoserie cattoliche di questo o quel santo: un palermitano potrà pure essere devoto a Santa Lucia o Sant’Agata, ma non si facciano paragoni con Santa Rosalia, perché la ‘Santuzza’ non si tocca! Insomma, anziché modellare l’uomo a immagine e somiglianza di Dio, si modella dio a immagine e somiglianza dell’uomo. E l’olimpo delle divinità si rispecchia in noi, sì, ma non è un olimpo in pace, in cui le diverse qualità divine si armonizzano dando luogo a una personalità integrata (yoga significa anche “integrazione”), ma il riflesso è una personalità multipla, in perenne lotta interiore, in cui non troviamo pace se non per brevi istanti di tregua.
Cosa possiamo intendere per qualità archetipiche? L’innocenza, per esempio, il desiderio di santità, la pura conoscenza, la pura attenzione (cioè l’attenzione verso la propria interiorità e non verso le cose esterne), la creatività, la pace interiore, la capacità di evolversi, il senso di dignità, il senso di giustizia, la sicurezza interiore, l’amore senza attaccamenti, il senso di fratellanza fra uomini e donne, la gioia di vivere, il rispetto dell’altro, la capacità di perdonare se stessi e il prossimo, di superare i vecchi schemi e i condizionamenti, di mettere da parte l’orgoglio, di riconoscere sempre il bene camuffato in mezzo al male e, infine, la vera devozione e la capacità di integrare armonicamente tutte queste potenzialità: sono tutte qualità divine, ma – se vogliamo – anche profondamente umane, perché è di questa pasta che siamo stati creati e perfino un ateo (spesso anche più di uno che si autodefinisce credente), animato di buona volontà, può ritrovarvisi, perché non può sfuggire alla sua vera natura.
• Per la cronaca, mentre scrivo è stato svelato il mistero: in questa seconda foto, infatti, è ben visibile che si tratta di un effetto ottico dato dall’illuminazione del faro, la scrostatura del muro che disegna mani e volto e la trave in legno che traccia le vesti: una serie di coincidenze che, tuttavia, potremmo definire ‘miracolosa’.