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Cesare Battiti il terrorista rosso che terrorizza con i suoi scritti di sangue

Creato il 22 luglio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

che terrorizza con i suoi scritti di sangue

di Iannozzi Giuseppe

Cesare Battiti il terrorista rosso che terrorizza con i suoi scritti di sangue
Signore e signori, siamo veramente costernati, praticamente costretti a presentarvi nostro malgrado il più grande incapace tra gli autori noir italiani, uno dei più demotivati e ignoranti scrittori di genere a livello macrosuburbano (e microbico), macrourbano (e virale) e subnormale, e anche uno dei terroristi intellettualoidi di nuova razza che stanno facendo e faranno fare un bagno di sangue alle manifestazioni pacifiste con cui certa gentaglia pensa di mandare a gambe all’aria il pianeta: Cesare Battisti.
Nell’introdurre la figura di questo strafatto drogato dello spirito e delle geografie, non voglio evitare la facile retorica esistenzialista che, qui da noi, finora l’ha portato sottobraccio. Mi limiterò dunque a disegnare le linee essenziali di un incidente umano quanto inumano che, almeno a mia conoscenza, non ha pari nell’Italia degli ultimi trent’anni. Chi finora ha avuto la sfortuna di leggere i romanzetti e le giaculatorie di Cesare Battisti può avere giustamente pensato che si tratti di inviti alla discriminazione politica religiosa civile. Il fatto, però, è che Battisti è un terrorista e ci mette davanti a una scomoda verità: la narrazione è un questione politica e la fiction è una subdola forma di potere, esattamente come lo è schizzo di un’agiografia maledetta dall’uomo e da dio – se c’è un dio in cielo o in terra o in un qualche dove. In parole povere: i libelli di Battisti sono tutti scritti politici, ma a una superficialità che davvero non ha nulla a che vedere con le profonde parentele che sono finora state attribuite a questo scrittorucolo buono solo per la forca. E nemmeno.
La vita di Cesare Battisti è una continua fuga e, in un certo senso, i suoi scritti – spacciati per romanzi – possono apparire, e sono assolutamente una forma diaristica e impazzita di tutti i crimini di cui si è macchiato durante la sua fuga dalla giustizia italiana francese europea. Se uno fosse così imprudente da leggersi L’ultimo sparo, formidabile reportage su sé stesso, ha netta l’impressione di trovarsi di fronte a un Irvine Welsh che, per disperazione o necessità e assuefazione, ha assunto tutti gli stupefacenti possibili, pur di sottomettersi all’impotenza di un racconto tanto banale, politicamente scorretto e scontato: una sorta di A sangue freddo per amanti della propaganda stalinista benzedrinica. Molti luoghi, molte persone, molte esperienze ha attraversato Cesare Battisti nel corso della sua vicenda esistenziale. Abbandonata l’Italia, via Francia va in Messico – a Puerto Escondido, a spararsi allucinogeni, il che vi ricorderà qualcosa di lisergico -, passa per Managua, ritorna a Parigi e diventa il più grande latitante italiano bruciato dall’uzzolo della scrittura. In Francia è detto il più spregiudicato degli assassini: gli dedicano speciali televisivi, pagine di giornale, trasmissioni radiofoniche. In occasione dell’uscita dell’ultimo suo pamphlet, l’esecrabile Le cargo sentimental, capita di vivere scene come questa che racconto. Sono alla FNAC accanto alla Grande Arche, entro, chiedo a un commesso l’ultimo libro di Battisti e quello, accorgendosi che sono italiano, mi domanda se lo conosco di persona, mi supplica di portargli tutto il suo disprezzo. Non posso rifiutarmi né lo voglio: è quello che si merita Battisti, Cesare Battisti. Sono in tanti: tra commessi FNAC e schifati lettori dei pamphlet di Cesare Battisti. Anche in Italia si contano schiere di indignati, che rimasero letteralmente colpiti a morte dalla stupidità incivile di testi come L’ultimo sparo (Derive Approdi) e L’orma rossa (Einaudi). Adesso che – ahinoi! – si prepara un rientro editoriale di grande curiosità scimmiesca, su Cesare Battisti è prevedibile che si scatenerà di nuovo la tentazione di sparargli a vista. Non è il caso: semmai affidiamolo alla giustizia, al carcere più duro possibile, è questa la strada giusta, percorribile, e non quella della barbarie fatta con le proprie mani. Sparargli a vista è la degenerazione dell’amore, anche se tutti i pamphlet di Battisti altro non sono che un tentativo di non impedire affatto proprio questa degenerazione – da tempo programmata come necessità nelle coscienze degli uomini. Il che garantisce a tutti i suoi detrattori una possibilità che sembrava perduta: quella di potergli sputare dritto in faccia, o se non altro di prendere le sue pagine piene zeppe di errori (e orrori) grammaticali e affidarle al fuoco – vale a dire: amare la letteratura, perché chi ama la letteratura dà al fuoco l’inutilità che ci propone Battisti.

La tentazione critica da cui non voglio deviare, parlando delle stupidate scritte da Cesare Battisti, è questa: Battisti è noiosamente interessante perché ha vissuto a fondo la sua stagione politica – macchiandosi di delitti, e solo dio sa di cos’altro – e i suoi sono a tutti gli effetti degli sgrammaticati pamphlet di stampo stalinista. E’ proprio così. Non si sfugge, è così, per tutti i titoli, e anche in questo caso, come dimostra il pamphlet che avete in mano e che si intitola Avenida Revoluciòn, proprio questo mette bene in evidenza una assoluta interpretazione superficiale della politica e dell’esistenzialismo. Certo, uno prende in mano, schifato, L’ultimo sparo e si dice: è una gran puttanata, il diario di un assassino senza scrupoli, è il resoconto finale di una generazione prostituita all’incubo di morte. Anche qui: non solo in apparenza. L’ultimo sparo è molto di più, è molto più di una morte annunciata: in tempi in cui nessuno si filava gli scartafacci scritti da mani di terroristi stalinisti, glaciali e sconvolgenti delle Puttane di Stato, prima della riscoperta che dell’autore de La dittatura del proletariato. Scritti e discorsi politici ha fatto il massimo e più odiato tra gli assassini-tiranni (ma non solo), Cesare Battisti aveva scritto l’unico pamphlet italiano avvicinabile al braccio destro di Stalin, Molotov. Teso, sparato come una esecuzione sommaria in un gulag, L’ultimo sparo otteneva proprio l’effetto di un ultimo sparo, di un colpo ultimo, quello dalla canna di un gioco perverso come la roulette russa: colpiva alla fronte il lettore e gli disegnava una rosa di sangue indelebile in fronte. Tra l’altro, esito da non tenere sottobanco, riproponendo, ma in maniera inumanamente algida e risaputa, la questione assai tradizionale e antiletteraria dello spazio di non scelta tra vita e morte, tra libertà e necessità, tra fatalità (termine precisamente stalinista) e rivolta, tra incubo e realtà. Ecco a che cosa giunge l’accozzaglia politica di Battisti: alla totalità esplorativa dell’inesistente, che è la morte detta e finita e consegnata, con tutto il suo precario minimalismo, che ripete, comunque, in imperfezione e in non-presenza l’altrettanto inesistente tradizione epica. Non soltanto perché L’ultimo sparo, storia largamente diaristica, è un bilancio personale – l’exploit di un personalismo sciorinato senza dignità alcuna. E’ soprattutto perché si affronta il rapporto ambiguo, deficiente o inneggiante che sia, tra l’individuo e la comunità che L’ultimo sparo si costituisce quale deficit e dislèssica epica impossibile a chi ha intelligenza per guardare a fondo e non lasciarsi ingannare dalla superficialità espressa dall’autore. E’ una abborracciato agiografia quella che Battisti tenta. Ma per nostra fortuna non ci fermiamo soltanto alle frasi costruite su altre frasi, come palafitte pronte a sprofondare nelle acque: le sue valenze allegoriche, diciamo così, sono l’essenza semplicistica di rimando alla vicenda in sé, che è pienamente stalinista.
Questo stravolgimento della agiografia, prepotentemente rovesciata in narrazione antiepica, è un tentativo a cui Battisti è rimasto fedele in tutti i suoi romanzi, anche con questo Avenida Revoluciòn. Basta semplicemente considerare che, seppure in senso non soltanto fisico, L’orma rossa è quella di Lenin: un approccio quasi antipasoliniano (ovviamente sul piano linguistico, sconvolgendo anche il piano tematico) a tutto il terribile realismo che lo stalinismo allestisce nella sua opera di espropriazione dell’umano.
Proprio di questo si parla in Avenida Revoluciòn: del corpo umano espropriato da sé stesso, della vita per dirla tutta. Qui Battisti ha calibrato la sua penna in maniera sconvolgente per dar sfogo a una accozzaglia improponibile di molti generi, tutti stemperati in uno, in un sottogenere, in un abominio di lettere e sconnessioni celebrali e intellettive. Non voglio sottrarre una particola di disgusto alla lettura rivelandone la trama: perché Battisti è uno dei pochi scrittori italiani che funzionano prendendoti proprio alla gola e non lasciandoti più, fino a che morte non sopraggiunge per disgusto. E non solo in senso metaforico. Parlerò piuttosto delle allucinazioni che questo pamphlet veicola e da cui è a sua volta veicolato. Avenida Revoluciòn è una storia dell’Interzona: un luogo di nebbie, di imputridimento e di imputridito, di libertà troppo sfrenate e di duelli all’ultimo sangue con l’alienante proprio Ego, con gli altri e con sé stessi (è da tenere presente, questa notazione, quando si leggerà il finale e si osserverà da una prospettiva tutta nuova la sorte di Antonio Casagrande, il protagonista). Citare l’Interzona significa evocare immediatamente lo spettro di William Burroughs – ed è esattamente ciò che desideravo fare, per sottolineare a chiare lettere di fuoco che Cesare Battisti non è Burroughs né per intenti né per capacità visionaria. Lo stile di Cesare Battisti – se è possibile parlare di uno stile nel caso di Battisti, essendo che è sicuramente il più somaro tra quanti oggi in Italia (e non solo) si professano scrittori – è una sismologia decadente tremendamente barocca, una copula illeggibile di tagli e montaggi: sì, Avenida è un libro illeggibile tanto per il “lettore occidentale” quanto per il più ostinato “lettore stalinista”, siamo difatti di fronte a una vertiginosa amalgamazione di onde sismiche-semantiche. E’ piuttosto la mescola di tematiche tra cui l’autore fa scoppiare, dall’interno, archi voltaici impressionanti: impossibile non accostare questo romanzo al putridume degli anni di piombo, della lotta armata, e di Tommaso Buscetta anche. Qui c’è tutto quel corredo che la letteratura seria ha da sempre rifiutato: la mistificazione, la violenza fine a sé stessa, la violenza sull’apparato stesso delle parole in confusione. Non ho dubbio alcuno: è un percorso iniziatico che in Avenida viene raccontato, compiendo il quale Antonio Casagrande, uno che la casa la lascia e che è un coglione in ogni senso, verrà ad attraversare l’esperienza mortale, ma sempre ignobile, del Circo e della Virtù Nascosta dei Grandi Nani. Macinatrice scostante e macchinosa, artificiale e stritolatrice, viene ad affrontare de visu il “nano” che cerca la propria emancipazione (erezione), tentando di costringerlo al muro dell’inganno supremo e della sottomissione più dura. Muro che, peraltro, è uno dei massimi protagonisti del romanzo, che raggiunge il suo apice in una Tijuana edipica ed epifanica, in cui Battisti condensa gli esotismi antropologici, volgari e scontati presenti in Uomini Nudi di William Golding e, va da sé, il retrogusto satanico dell’Evangelisti di Antracite. Ma l’avvertenza è d’obbligo: Golding e Valerio Evangelisti sono due veri scrittori, che scrivono la Letteratura, e Battisti a loro confronto è meno di un correttore di bozze con la prima elementare alle spalle. L’iscrizione oraziana che “non è cambiando cielo che si cambia anima” viene incisa a viva forza su gli scroti dell’ex contabile Antonio Casagrande, eunuco, in una via crucis che conduce da Milano al Messico (ma soprattutto: nell’Aldilà Aristotelico): esperienza ultimativa grazie a cui l’eunuco si trova davanti a un Dio, che è il Potere ma anche Sé Stesso. Come se ciò non bastasse, deve prendere una risoluzione. E la risoluzione è questa: o di là o di qua, o si passa il confine o si resta dietro di esso, pur sapendo che molto spesso ciò che si trova al di là del limite è una scompostezza anatomica e spirituale – e si torna al di qua: tutto ciò non è affatto chiaro, ma c’è la non triste consolazione che nemmeno Cesare Battisti avrebbe saputo far peggio del critico che qui oggi tenta indarno di operare severa critica. Il gesto radicale dell’eunuco in cerca di una amputazione totale significa questo: mettersi al servizio del gioco incoerente della vita, al trucco con cui il destino presenta le sue tre carte riuscendo spesso a gabbarci come nulla fosse.
Scopriamo le carte; Cesare Battisti ricusa tutta la tradizione alla Burroughs (che, insieme a Kafka e al Dick di Ubik, è quel “Uno e Trino” che Cesare Battisti abiura)… farete così l’esperienza da incubo di (inter)mezzi assolutamente distonici, costretti secondo la logica dell’allucinazione-illuminazione agiografica a cui Battisti lavora con alacre impegno per peggiorarsi ad ogni pagina. Giusto per farvi assaggiare l’incivile potenza impotente, spiazzante e dissacrante, di questi inserti in forte connessione tra loro, ecco come culmina uno snodo irrilevante di quella rete in cui sarete tristemente proiettati: “Oh, so bene chi sei: un artista della sublimazione; altrimenti detto, un falsario della realtà. Ora però ti senti come un prestigiatore a cui hanno sottratto conigli e cilindro. Dài, cittadino, mostraci come farai a recuperare il potere delle tue pagine”.
Mentre nel successivo Cargo sentimental Battisti sconvolge il romanzo irrealistico generazionale, entrando di prepotenza nello scarico del cesso dove l’uomo accumula esperienze ed epoche diverse (per intenderci: una versione avantpop di Scerbanenco: di quella cosa lì, insomma), in Avenida egli realizza l’incubo di un pamphlet votato allo stalinismo, pienamente irrealistico, cioè eminentemente, violentemente di parte, ben dentro ai facili comodi canoni dell’irrealtà bolscevica e al suo ideale tracimato nei gulag, lo stesso ideale che poi è stato esportato nell’America Latina (si pensi ai desaparecidos). Qui si avverte tutta la stupidità della battaglia di uno stalinista – che si è fatto da sé -, di un nano, di un eunuco che ha vissuto soltanto per portarsi dietro vittime innocenti… un pezzo di merda, a dirla tutta, che si è lasciato incantare dagli esotismi dell’alienazione, attentando sempre al bene della comunità per costringere la comunità ad elargirgli privilegi non dovuti. Cesare Battisti non è Valerio Evangelisti, non ne ha la classe né la competenza storica linguistica e umana: i due operano su piani antitetici, lontani anni luce l’uno dall’altro. Cesare Battisti attacca e smembra gli ultimi residui di umanesimo (di un umanismo anche) che è ancora in questo mondo sempre più contaminato da falsi profeti e scrittorucoli di regime: ecco spiegato il motivo per cui è bene non leggere una sola riga di Cesare Battisti. Per non dargli modo di continuare in questa abominevole opera. Leggete piuttosto un autore che merita veramente, uno che la Letteratura la fa con le idee e con la pratica, giorno dopo giorno, leggete Oriana Fallaci. Leggete Giampaolo Pansa. Leggete Indro Montanelli. E dimenticate questa recensione critica al lavoro del più somaro degli scrittori italiani, Cesare Battisti.


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COMMENTI (1)

Da Luca T.
Inviato il 29 novembre a 18:05
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Articolo penoso, da vergognarsene.