Magazine Cinema
La trama (con parole mie): all'interno dell'area di massima sicurezza del carcere di Rebibbia il progetto che vede i detenuti portare in scena spettacoli teatrali prevede che si lavori alla realizzazione del Giulio Cesare di Shakespeare, una delle tragedie più note del Bardo.Partendo dal giorno della prima e andando a ritroso, i fratelli Taviani scoprono le vite dei protagonisti della piéce, i reati che li hanno portati dietro le sbarre e le riflessioni che i ruoli inducono in ognuno di loro: dal traffico di droga all'omicidio, gli occhi profondi ed i dialetti di questi insoliti interpreti divengono lo specchio di una vicenda senza tempo in grado di comporre un affresco drammatico e potente sull'essere Uomini, e le prove di quello che sarà un successo il giorno del debutto diverranno un percorso più importante dell'applauso del pubblico.
Da tempo - e, lo ammetto, non ricordo neppure esattamente da quanto - non mi capitava di giungere al termine della visione di una produzione nostrana così convinto della sua potenza: in qualche modo, devo essermi sentito come i fratelli Taviani, premiati con l'Orso d'oro a distanza siderale dall'ultimo trofeo della Berlinale finito in Italia - era il 1991, La casa del sorriso di Marco Ferreri -, orgoglioso di aver assistito, di fatto, ad un piccolo miracolo.
Perchè i due fratelli, ormai non più di primo pelo - Vittorio classe 1929, Paolo 1931 -, noti da una parte e dall'altra dei confini nazionali per titoli quali Padre padrone - vincitore della Palma d'oro a Cannes -, ormai dati sul viale del tramonto da molti, riescono a mettersi in gioco trovando un ponte ideale tra la fiction e il documentario, appoggiandosi a quello che è e resta il più grande sceneggiatore sul quale il Cinema possa contare - il buon, vecchio Bill Shakespeare - e sfruttando al meglio il realismo ed il fascino della mitologia carceraria, da sempre fonte di ispirazione per scrittori e registi dietro le sbarre e non.
Decostruendo, di fatto, lo spettacolo messo in scena dai detenuti del carcere romano di Rebibbia in modo da mostrarlo nella sua interezza al pubblico attraverso i provini ed il percorso che ha condotto alla prima, i registi pongono l'accento sugli interpreti dei suoi protagonisti e sul legame progressivamente costruito dagli stessi nel corso dello studio delle battute e delle prove con Giulio Cesare, Cassio, Bruto, Antonio ed il resto del cast of charachters.
L'occhio della macchina, presente ed elegante - le inquadrature, anche quelle apparentemente più realistiche, danno l'impressione di essere studiatissime - riesce nonostante queste caratteristiche a non risultare mai davvero sopra le righe, regalando all'audience momenti che paiono istantanee di vite figlie di una cattiva strada che ha il sapore dei pezzi di De Andrè ed altri che esplodono dallo schermo come pagine di grandissimo Cinema - le voci dei detenuti, come fantasmi, che aleggiano sul carcere nella notte, in attesa del confronto finale tra i congiurati responsabili della morte di Cesare ed il suo braccio destro Antonio nella piana di Filippi, in Grecia.
Un lirismo realista che ricorda il tocco di Pasolini e la tecnica di Bresson, emoziona e scuote senza colpi bassi o ruffianerie e mostra quanto soprattutto l'opera di Shakespeare possa essere geniale ed interpretata a molteplici livelli di lettura - i congiurati in attesa di portare a termine la loro missione intenti a parlare della posizione del sole, i dilemmi di Bruto ed il paragone tra Cesare ed un amico infame liquidato in quanto tale anni prima, le osservazioni sul De bello gallico, lo straordinario monologo di Antonio nel cortile del penitenziario -, a prescindere dalle epoche e dai contesti storici e sociali.
Il tutto senza mai dimenticare l'occhio da Maestri, che sfodera alcuni passaggi coreografici perfetti nel corso delle riprese della prima dello spettacolo - che mi hanno riportato alla mente il Mahabharata di Peter Brook - e della già citata battaglia di Filippi così come sequenze in bilico tra l'ironia, la tristezza e l'indagine sociale come quella dei provini per assegnare le parti nello spettacolo.
Ma non ci sono scelte di regia, fotografia o montaggio che possano compensare il vuoto profondo che attanaglia le vite consumate in una prigione, non-luogo per eccellenza al centro delle città reali eppure profondamente lontano da tutto e da tutti, vissuto nella nostalgia di una donna - Antonio che accarezza le poltroncine del teatro ancora in allestimento pensando a chi le occuperà - o nella presa di coscienza dell'arte e del suo valore a dare significati nuovi all'esistenza.
E la sua vicinanza, che stimola, riscatta e in alcuni casi addirittura redime - Edward Bunker docet -, è anche la sofferenza più grande di chi tra quelle mura spenderà il resto dei suoi giorni.
Non si fa questione di giustizia, o si lamenta la propria condizione: al contrario, come il condannato del Folsom prison blues di Johnny Cash, si sogna di andarsene lontani, in un posto in cui una cella non divenga la misura tale da far sembrare Shakespeare così ingombrante da non avere più spazio per respirare.
MrFord
"Tutto il giorno con quattro infamoni
briganti, papponi, cornuti e lacchè
tutte l'ore cò 'sta fetenzia
che sputa minaccia e s'à piglia cò me
ma alla fine m'assetto papale
mi sbottono e mi leggo 'o giornale
mi consiglio con don Raffaè mi spiega che penso e bevimm'ò cafè."Fabrizio De Andrè - "Don Raffaè" -
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