Vincitore, fra l’altro, dell’Orso d’Oro al 62mo Festival di Berlino nel 2012, insieme al Premio della Giuria Ecumenica, Cesare deve morire, scritto e diretto da Paolo e Vittorio Taviani, è la dimostrazione di come il cinema d’autore, italiano nello specifico, non sia poi così legato, o non lo sia sempre, a rigidi schemi rappresentativi, magari intrisi di accademismo e virtuosismi fini a se stessi. Anzi a volte riesce, e il film in questione ne costituisce un esempio eclatante, a rinnovarsi con intelligenza ed intuitivo spirito d’adattamento, così da andare incontro alle diverse esigenze fruitive di un pubblico sempre più eterogeneo.
Bruno Striano
La vicenda assume un andamento che potremmo definire circolare: inizio e conclusione coincidono infatti con la rappresentazione della parte finale sul palcoscenico, di fronte al pubblico, visualizzata a colori, mentre l’avvio e il corso della narrazione, in bianco e nero, precedute dall’approvazione del progetto teatro e dai provini dei detenuti che vi hanno aderito (sei mesi prima del debutto), vedono come scenario l’interno delle celle, la biblioteca, i corridoi, i cortili della ricreazione.
Felicissima l’intuizione di far sì che ognuno degli attori possa esprimersi nel dialetto della regione d’origine, offrendo così una recitazione piuttosto naturale, spontanea ma sentita, riportando la tragedia shakespeariana alla sua primaria essenza di opera popolare.
Giovanni Arcuri
I bei dialoghi all’insegna di un continuo divenire, l’incedere discreto del motivo sonoro (Giuliano Taviani e Carmelo Travia), i primi piani, le riprese dall’alto dei cortili di Rebibbia, il montaggio agile e veloce (Roberto Perpignani), particolarmente riuscito nell’alternanza fra le sequenze in cui i detenuti provano, ognuno nelle loro celle, la rispettiva parte che poi li vedrà insieme sul palco, tutto contribuisce nel corso della narrazione a rendere sempre più vivido uno spazio chiuso alla vita. Non a caso il complesso carcerario è più volte inquadrato dall’esterno, ora simile ad un’entità astratta, immobile nel tempo e nello spazio, entrambi impossibilitati a scalfirla, ora ad una sorta di mondo a parte, avulso dalla realtà che lo circonda, mentre qualcosa di fortemente energico e vitale lo scuote da dentro, come nella sequenza volta a rappresentare la messa in scena della morte di Cesare (Giovanni Arcuri) e il successivo elogio funebre, quando da dietro le sbarre vediamo i detenuti inveire e rumoreggiare per quanto sta accadendo sotto i loro occhi.
Man mano vengono fuori inoltre, rancori personali e malumori trattenuti (e qui la mdp si fa quasi pudica, si avvicina ai volti e poi se ne allontana), tanto da permettere la materializzazione di un vero e proprio transfert: a molti dei reclusi, se non a tutti, parole come violenza, potere, sopraffazione del libero agire, risuonano come tragicamente familiari ed il percorso artistico intrapreso finirà allora col coincidere, necessariamente, con quello, parallelo, dell’ acquisire coscienza di sé. E’ dunque un iter che parte dal dramma rappresentato per giungere a quello più intimo e personale, costituto essenzialmente dal prendere dolorosa consapevolezza di ciò che si poteva essere e non si è stati, come evidenziato dalle parole di Cosimo Rega, una volta smessi i panni di Cassio, “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è divenuta una prigione”. Mirabile esteriorizzazione, a volte brutale, di una sofferta ed arginata interiorità, Cesare deve morire si fa forte di una sorprendente, naturale, scorrevolezza, e rappresenta, a parere di chi scrive, il cinema nel suo stato più puro, capace di raffigurare, nell’essenzialità della rappresentazione e nei suoi risvolti autoriali, un intreccio fra realtà e finzione, volto all’incontro e al confronto, non inedito ma certo singolare.Come ci ricorda il Bardo, infatti, “ogni uomo è un attore e tutto il mondo è un palcoscenico” (As You Like It, Come vi piace, 1599, Atto II, Scena VII, il monologo di Jacques), anche quando quest’ultimo è costituito da una prigione, spazio chiuso concreto e tangibile o schema mentale di cui si può essere prigionieri una volta dimenticatosi che, in fondo, “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” (La tempesta, The Tempest, 1610/1611).
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I fratelli Taviani
Orso d’Oro e Premio della Giuria Ecumenica al 62mo Festival di Berlino (2012). David di Donatello 2012 (miglior film, regia, produzione, montaggio e fonico di presa diretta). Nastro d’Argento dell’anno 2012 (Il SNGCI ha anche assegnato un riconoscimento collettivo all’intero cast).