Stasera ho visto “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, un film di cui abbiamo cominciato a sentir parlare solo dopo che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino, che nel primo fine settimana di proiezione ha incassato appena 88.000 euro e che a tutt’oggi si trova solo in poche sale. Eppure “Cesare deve morire” è un film di una bellezza estrema, sconvolgente. I fratelli Taviani lo costruiscono intorno a una storia vera, quella di un gruppo di detenuti che in carcere prepara e inscena il “Giulio Cesare” di Shakespeare. La vita vera degli attori, in galera per omicidio, spaccio di stupefacenti, associazione mafiosa, si sovrappone a quella di Cassio, Bruto, Cesare, Antonio; il dramma da rappresentare diventa la via di fuga dal loro dramma personale, ma anche l’occasione per riflettere sulla politica, per sperimentare nuovi modi di relazione, incontrare l’arte. Fin qui nulla di nuovo: il cinema che attinge al teatro di Shakespeare ha dei precedenti indimenticabili, come “Nel bel mezzo di un gelido inverno” di Kenneth Branagh, ma i fratelli Taviani compiono il prodigio di portare sulla scena la verità: l’umanità nuda di attori non professionisti, detenuti, che incantano in quanto a bravura, la realtà di un carcere disumano, che dopo ogni prova di scena chiude in celle anguste l’imperatore Cesare e il grande oratore Antonio. Gli attori commuovono intensamente, per la loro capacità di vivere la bellezza di un’opera, di entusiasmarsi di fronte alla scoperta di sentimenti che riconoscono, ma a cui non avevevano ancora dato un nome, per la capacità di gioire intimamente per il successo della rappresentazione e nello stesso tempo di accettare con grande dignità la loro condizione di emarginati.
Deve pur esistere un altro sistema “rieducativo” alternativo al carcere, che operi in maniera preventiva nella società, in modo che non ci sia proprio più bisogno del carcere. Che crei pari condizioni di accesso alla cultura, al lavoro, all’arte. Perché il film dimostra soprattutto questo: che, come dice Valentino Salvoldi, non esiste criminale che non abbia un sogno che non è volato, un amore che non è stato donato.