Se c’è un Festival del cinema che davvero incontra il suo gusto in modo totale e indiscutibile, la ‘povna opta senza dubbio per la Berlinale. Perché è acuta, democratica (nel permettere l’accesso a prezzo ragionevole un po’ a tutti), intelligente. Perché i film che propone sono belli, perché non si può non amare un festival che esordisce con Rebecca, la prima moglie, perché nei premi che assegna conferma la mescolanza (tutta tedesca) tra innovazione e storie, perché lei ama follemente Berlino. Proprio per questo, quando ha visto l’Orso d’oro andare a quei fratelli, è stata doppiamente incuriosita e contenta: perché, in quel caso, le certezze che non l’avevano tradita erano diventate due.
Così, ieri pomeriggio, approfittando di una distribuzione privilegiata (anche se un po’ lenta), si è diretta verso il cineclub che proponeva, finalmente in programma, Cesare deve morire nella piccola città. C’era quanto bastava a intrigare la ‘povna fin dal titolo: dei Taviani e di Berlino si è già detto; aggiungiamoci il suo Shakespeare, e pure la passione politica, il quasi docu-picture e la riflessione sull’universo concentrazionario. La ‘povna è rimasta per tutti e settantasei i minuti con gli occhi incollati e immobili, senza distrarsi né fiatare. E ha visto uno straordinario pezzo di rappresentazione civica dipanarsi sullo schermo, mentre una tecnica filmica rigorosa, pulita, attenta, portava uno dei drammi più belli del teatro di sempre a farsi insieme storia, educazione civile e politica, cronaca, riflessione filosofica, discorso sull’arte e molto altro; portandosi dietro – ma in maniera mai sbavata, e sempre onesta – lo sguardo dello spettatore. E la ‘povna (che il Giulio Cesare lo farà quest’anno probabilmente con gli alunni) si è sentita trasportata nella Roma antica, certo, insieme ad Antonio, Bruto e Cassio; ma anche nell’universo di Gomorra (l’attore, poi, è lo stesso); e nel dibattito su giustizia, rieducazione, pena e colpa; e nell’Italia attuale.
E le è venuto in mente, prepotente, quello che aveva pensato e messo per scritto un po’ di tempo fa (e ora è passato esattamente o quasi un anno), a proposito del corpo del capo, e di un’Italia in cui la consapevolezza del valore laico delle istituzioni, in sé e per sé, può essere spazzato da appena un po’ di abilità retorica; e di quanto siamo, ancora e sempre, tutti un po’ figli di Antonio. Perché per sentirci liberi Cesare deve morire: addosso! – addosso!, addosso! – ma poi dopo di lui i Cesaricidi. Perché siamo un paese che non riesce ad accettare la politica come metodo della mediazione alta, e sa vivere soprattutto di contrapposizioni. O forse perché l’Italia bambina è ancora, tutta quanta, un’eterna adolescente (bianco o nero: senza sfumature). Non a caso (o forse sì, ma fa lo stesso, perché la coincidenza è significativa e saggia), c’è una parola che è stata espunta, nella sceneggiatura, dal più famoso monologo di questa pièce del Bardo: quel “concittadini” (mal tradotto dall’inglese) e che tuttavia propone un patto di condivisione consapevole. E questo – pensa la ‘povna – è solo comprensibile che manchi, adesso, dalla scena pubblica. Ma la sua assenza forte esprime, ancora tragicamente, il senso di mancata appartenenza di una democrazia incompiuta. Ed è qui che Cesare deve morire si unisce al Primo Levi della “zona grigia“, nell’immagine di questo nostro paese “bello e inutile” come grande carcere, mentre – ciascuno a interpretare (Cesare, Bruto, Marco Antonio o Cassio) i ruoli che più gli si confanno – gli attori, incapaci di distinguere tra vita vera e rappresentazione scenica, ancora una volta, siamo noi.
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