Roma. Carcere di Rebibbia. Sezione di massima sicurezza. 6 mesi a diretto contatto con i detenuti per i fratelli Taviani, due monumenti viventi del cinema italiano, che, oltre all’Orso d’oro a Berlino, ci regalano un gioiello di umanità, una qualità più anacronistica che mai. Regna infatti nei media un giustizialismo becero a causa del quale molti sembrano fremere di gioia all’idea che altri uomini vengano rinchiusi per sempre e buttata la chiave. Un’altra qualità indubbiamente rara è l’eleganza della regia: finalmente l’occhio si può riposare e godere di uno stile coerente e senza fronzoli superflui non indispensabili al piacere della fruizione da parte dello spettatore. Tutto questo denota indubbio amore per il racconto una storia per immagini, detto in altra maniera, amore per il cinema.
La storia la offre Shakespeare, l’autore delle storie di tradimenti e uomini d’onore per eccellenza, dunque quale posto migliore e al tempo dissonante se non il carcere per rappresentare il Giulio Cesare? Seguiamo senza alcuna noia, al massimo un po’ di angoscia dato che Rebibbia sembra un posto uscito da marte, le vicende della rappresentazione della piece che si fondono all’unisono con le vicende di Cesare, Bruto e Cassio: dagli intensi provini, alle prove improvvisate in biblioteca e nei corridoi fino allo spettacolo finale, che viene proposto da un ottimo montaggio anche all’inizio della pellicola, dandole circolarità. Nonostante dunque il film sia in parte metateatrale e metacinematografico, ovvero svela da subito il suo essere finzione, è davvero difficile non pensare che il detenuto romano che interpreta Cesare, anche grazie una discreta somiglianza fisica, non sia davvero Giulio Cesare in quei momenti, e lo stesso vale per il bravissimo Bruto e per gli altri. Tutti sembrano avere molto in comune con i loro rispettivi personaggi e li interpretano, grazie anche all’aiuto del direttore artistico, con una bravura e una naturalezza uniche: ognuno con il suo dialetto e il proprio pesante bagaglio di esperienze sulle spalle.
La fotografia è semplicemente bellissima, in particolare nei toni netti del bianco e nero, che precedono lo spettacolo, il quale invece sarà caratterizzato da intensissimi rossi, per sottolineare ancora di più cosa ha significato per i detenuti questa rappresentazione: prima un’incolore e indistinta vita tra le sbarre in cui poco o niente faceva la differenza, dopo, da una parte la bellezza e la soddisfazione dello spettacolo, dall’altra un’amara ulteriore presa di consapevolezza della propria ignobile condizione umana, coscienza acquisita grazie all’arte.
Cassio/Cosimo Rega: “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”
Tra i detenuti infatti c’è chi deve scontare una quindicina o ventina d’anni per spaccio e simili, ma c’è anche chi, per omicidio, deve scontare l’ergastolo a vita. I Taviani cercano di far ricordare all’Italia e all’Europa che, anche se a noi sembra silenzioso e inesistente, esiste tutto un mondo dietro quelle altissime mura. E non si tratta di “spazzatura” come comunemente viene dipinto dai media qualunque signor nessuno che compia un reato di qualsiasi tipo, al contrario si tratta di esseri umani del tutto simili a noi, nonostante per comodità non ci piaccia pensare il contrario per poterci sentire superiori. Cesare deve continuare a vivere e a sanguinare e morire, ma soprattutto deve farlo in carcere, dove è più necessario che mai, nonostante l’arte possa essere più un placebo che una soluzione.
La provocazione: A voi non morde un po’ la coscienza che, anche se hanno provocato danni di varie entità su altri, tutte quelle persone-esseri umani stiano chiusi per sempre in tre metri quadri, privati completamente della loro esistenza?
Esclusi gravi casi patologici (che andrebbero curati e non incarcerati) chi ha ucciso o spacciato fuori dalla legge, dovrebbe essere meno sadico e disumano di chi somministra o aiuta a somministrare pene come l’ergastolo a migliaia di persone privandole di tutto, però dentro la “legge”?