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Ho deciso di cominciare questo mercoledì di Dicembre con la recensione di un film per tutta la famiglia, docile, tenero e talmente caloroso da riscaldarci in queste fredde giornate invernali... sto parlando di Chained, un proverbiale calcio nelle palle in grado di fare andare di traverso anche allo spettatore più navigato il latte coi boscotti. Chained, una storia dolorosa e fredda come la nebbiolina alle cinque del mattino, l'ultimo film di una figlia d'arte che per una volta non fa la figlia d'arte, Jennifer Chambers Lynch. Il cognome la dice tutta ma devo ammettere che a me (come a molti altri) la primogenita del maestro non è mai piaciuta, non ha mai convinto nonostante la ragazza non sia mai stata attaccata ai pantaloni paterni cercando di emularne lo stile e le tematiche (vorrei anche vedere). In realtà Jennifer ha sempre cercato una propria strada nel mondo del cinema dimostrando una certa incapacità unità ad una mancanza di libertà artistica che fa rimanere sdegnati. Però, quando nessuno se lo aspettava più, eccola arrivare con un film che fa delle imperfezioni il proprio punto di forza, e che con forza agguanta lo spettatore mettendolo a sedere. "Guarda qui", gli dice, "per un'ora e mezza tu sei mio e io posso fare di te quello che voglio".
Bob è un tassista serial killer che un giorno fa salire sul proprio taxi una donna con suo figlio di nove anni, Tim. La donna muore mentre Tim viene "adottato" dall'uomo, ribattezzato Rabbit e reso suo schiavo. Il ragazzo passa anni in catene finche, adolescente viene scelto come erede del maniaco suo padre e padrone.
Diciamolo subito, metà del valore del film è dato dall'interpretazione di Vincent d'Onofrio che nel ruolo dell'assassino psicopatico - o anche solo dello psicopatico - da sempre il meglio di se: basta vederlo seduto lì, in mutande, con una bottiglia di birra tra le mani e non ci serve altro, anzi, si potrebbe fare un film con lui che non fas olo questo e lo si potrebbe definire comunque riuscito. Invece Bob, assassino di donne (vi ricorda qualcosa?), ama stuprare le proprie vittime e farle a pezzi col coltello. Non ci viene quasi mai mostrato questo orrore e quando succede è sempre filtrato dall'occhio della telecamera con la quale il tassista riprende i propri delitti, un filtro che rende l'atmosfera fredda e asettica impedendo allo spettatore di "entrare" nel film. Noi rimaniamo fuori e osserviamo la spoglia location dove tutto avviene, la violenza celata dalla calma del mostro e gli automatismi di un giovane (Rabbit, interpretato da un giovane e promettente Eamon Farren) cresciuto in quella violenza e in quella location, tra lo squallore e l'inutilità di un'esistenza senza futuro.
Il rapporto tra i due protagonisti è il centro di tutto ed è su questo che si concentra l'attenzione della Lynch, che prova ad esaminare le dinamiche sociali all'interno del nucleo familiare. Dinamiche che vengono private di tutti gli elementi "positivi", quali l'affetto e il calore. Vuoi perché il padre/padrone non ha nulla da offrire al figlio/schiavo se non la propria esperienza (di mostro), vuoi perché il figlio/schiavo mantiene una propria indipendenza mentale nei confronti del carnefice, da cui è assoggettato solo fisicamente. Quel che resta è quindi un rapporto utilitaristico atto alla sopravvivenza di entrambi: quella ideale del primo e quella materiale del secondo. C'è il carico emotivo riversato dalla figura paterna su quella del figlio che diventa così un contenitore: di aspettative, di rimpianti e di speranze. Un po' per non sentirsi soli, un po' per non morire. E la figura materna? Una donna intesa come preda, vittima del meccanismo eros/thanatos, è oggetto delle pulsioni maschili. Roba già vista e rivista se non fosse che questa volta anche la donna è sotto accusa, piccola e debole, incapace di difendersi e di agire se non attraverso il sesso.
Jennifer Lynch con Chained ti afferra, ti prende a sberle e ti lascia come uno stupido seduto in poltrona. Lo fa avvalendosi di primi piani, camera fissa, lenti movimenti e procedendo per sottrazione. Lo fa attraverso una fotografia sporca ma asettica, morbosamente pulita. Regala momenti meno e momenti più riusciti nel loro essere inquietanti e momenti che, poco poco, ricordano il padre. No, lo stile di David qui non c'entra niente, manca la componente weird, la visionarietà e il talento. Però poco poco Jennifer ha imparato. La regista, dolorosa e crudele come uno scienziato, se ne frega dello spettatore e gli mostra il proprio esperimento, filmato e riprodotto, privo di emozioni se non verso il finale.
Poi, verso la fine, succede qualcosa e quel qualcosa si chiama colpo di scena, che per quanto possa colpire, commuovere o lasciare a bocca aperta, è una nota stonata. Non ci sta bene e non è neanche tanto chiaro, soprattutto considerando che è un mezzo spiegone. E' proprio qui che la Lynch ci ricorda cosa ha fatto prima di Chained e perché non mi (ci) era piaciuta. Però fa niente, ormai il film è finito e rimangono solo i titoli di coda, vero colpo di genio in una pellicola riuscita, dura, che travalica i generi (thriller psicologico? Un po'. Slasher? Atipico. Torture porn? Sì, no, forse, ma da autore) e difficile da digerire. Ma manca il guizzo e forse non ce ne saranno mai. Ma se questo è il risultato va anche bene così...
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