Dream team e marziani non se ne sono visti, ieri sera, all'Olympiastadion di Berlino. Il Barcellona del secondo "triplete", perlomeno per quanto mostrato nell'atto finale della Champions League 2014/15, non è una squadra stratosferica, un inarrivabile ensemble di extraterrestri: trattasi, molto più prosaicamente, di un undici di altissima qualità, ricco di talento, che però non sempre ruba lo sguardo con la bellezza e la perfezione del suo gioco, anzi; ma nei momenti decisivi può mettere sul tavolo una concretezza spaventosa e, soprattutto, una batteria di formidabili solisti che il loro acuto, bene o male, lo piazzano in ogni gara, importante o meno che sia. No, niente extraterrestri, dunque, ma un più banale "diavoletto" sì: è quel Suarez diventato croce, senza delizia, del calcio italiano a tutti i livelli, da un anno a questa parte. In Brasile, l'estate scorsa, simbolo "cattivo" dell'Uruguay che (non certo per merito suo...) ci sbattè fuori dal Mondiale; poche ore fa risolutore, di fatto, di una finalissima molto più ispida, per i blaugrana, di quanto in molti si attendessero. SI POTEVA FARE... - Occhio a cedere alla tentazione del "si è fatto tutto ciò che si poteva", facile scorciatoia per i deboli. Perché se è vero che la Juventus è uscita a testa alta dalla sfida dell'anno, è anche innegabile che il film dei novanta minuti abbia scritto una storia ben chiara: gli spagnoli erano superiori, ma non avanti anni luce, e gli uomini di Allegri hanno dato, netta, la sensazione di poter fare il colpo grosso, mancandolo anche per alcuni (non molti, d'accordo) demeriti propri. Si era detto, alla vigilia, che per venire a capo di certi improbi impegni occorrono due cose: centrare la partita perfetta sul piano tecnico, tattico, fisico, mentale, con tutti gli elementi al 101 per cento delle loro risorse, e nel contempo sperare in qualche stecca del nobile avversario (un po' ciò che avvenne all'Italia contro il Brasile nell'epica sfida del 1982). Ebbene, se quest'ultimo fattore si è in fondo realizzato, da parte di Madama non tutti i meccanismi sono parsi precisi al secondo, e non tutti i "tenori" all'altezza della partitura. FIAMMATE ACCECANTI - Il Barcellona, si diceva, pur giocando una buonissima gara non ha fatto alcunché di veramente trascendentale. Grande compattezza e rapidità, brucianti accelerazioni alternate a lunghe pause, perfino qualche sbandamento in fase di copertura. Neymar molto attivo ma a tratti confusionario e spesso inconcludente, Messi parecchio sulle sue, con la tendenza, nel primo tempo, a dare via quasi subito la palla, quasi scottasse. Una buona occupazione delle corsie laterali, questo sì, con un Dani Alves particolarmente ispirato, e poi rare ma impressionanti fiammate, come la splendida, vertiginosa manovra che, sull'asse Neymar - Iniesta, ha messo Rakitic nella condizione di sbloccare ben presto il punteggio, con un chirurgico sinistro da centro area.
La Juve ha barcollato, ma senza crollare, mostrando sia di aver davvero acquisito una congrua statura internazionale, sia di non essere a distanze siderali dall'augusto rivale. Ha concesso agli spagnoli diverse palle gol nell'arco del match (formidabile Buffon a salvare sulla staffilata di Alves attorno al quarto d'ora, evitando ai suoi di uscire precocemente dal match), e tuttavia, dopo aver evidenziato inizialmente qualche impaccio in fase di avvio della manovra (merito anche dell'eccellente disposizione dei catalani), ha gradatamente preso le misure ai ragazzi di Luis Enrique, con Barzagli e Bonucci a svettare sicuri in retroguardia, e si è ritagliata pochi ma significativi spazi in fase offensiva, a partire da un'incursione di Morata sulla destra mal sfruttata da Vidal con un tiro fuori misura. JUVE NON AL TOP - Proprio la problematica serata del cileno è esemplificativa del concetto prima espresso: una Signora comunque viva, sul pezzo, pronta a cogliere le rare opportunità offerte da una partita non proibitiva, ma affrontata comunque in posizione di disagio, si vedeva frenata dalle performance sottotono di molti suoi alfieri: Vidal si metteva in mostra soprattutto per un certo nervosismo, che gli faceva conquistare una precoce ammonizione per lasciarlo via via scivolare fuori gara: ed era una "perdita" pesantissima, stante l'importanza del centrocampista nell'economia complessiva del gioco bianconero, dal contenimento alla costruzione alla finalizzazione. Il tutto, mentre si attendeva invano che Tevez entrasse nelle pieghe della gara col piglio del fuoriclasse risolutivo: l'apache si accendeva raramente, trovava infine, soprattutto nella ripresa, diversi spazi per il tiro, ma spesso mancava la precisione, quasi sempre la potenza, anche se da una sua bella girata in area nasceva il tap-in vincente di Morata per l'1 a 1.
C'è stato un Marchisio eccellente, questo sì, che si è sfiancato in tutte le zone del campo e mostrato il solito tempismo negli inserimenti, con in più il delizioso tacco che ha dato il là all'azione dell'unico gol e un paio di schioccanti conclusioni dalla distanza, mentre Pogba, pur se a volte impreciso, è parso in deciso progresso, anche se l'esplosività e l'incisività che lo contraddistinguono sono ancora un ricordo. Lichtsteiner ed Evra ai lati han fatto il loro senza grossi picchi, frenati nella spinta dalle esigenze difensive (ma lo svizzero ha messo lo zampino nella rete del pari), mentre Pirlo, va detto con onestà, non ha sostanzialmente inciso, limitandosi a una ordinaria amministrazione che non è ciò che ci si attende da un fuoriclasse, per quanto in evidente declino. DIECI MINUTI PER SOGNARE L'IMPRESA, POI SUAREZ... - Quasi lo stesso film del Bernabeu, stranamente: anche lì, contro un Real che per dimensione tecnica non è affatto lontano dal Barça, i torinesi avevano centrato il bersaglio grosso pur girando all'80 per cento delle proprie potenzialità. E ieri sera, dopo aver raddrizzato l'incontro, per una decina di minuti hanno davvero dato l'impressione di poter mettere le mani sulla Coppa (ahi, quel contropiede di Pogba, rovinato da un controllo problematico del francese...). Non è bastato perché, poco dopo, è ricomparso il solito Messi delle partite importanti, quello visto tante volte, ad esempio, al Mondiale di dodici mesi fa: un Leo sonnacchioso ma che all'improvviso accende la luce, come già aveva fatto in chiusura di primo tempo con un slalom chiuso... a fondo campo; partito a testa bassa verso la porta, ha irretito Buffon con un maligno diagonale che il portierone ha smanacciato, mettendo il "diavoletto" Suarez nella condizione di piazzare il più semplice dei tap - in. Il possibile rigore su Pogba e altre due pericolose incursioni davanti a Ter Stegen nel finale (con Pereyra e Marchisio), prima che Neymar fissasse in contropiede un 3 a 1 di scarso significato, a schemi totalmente saltati, rappresentano l'ulteriore conferma di quanto fosse una finale "open", ossia aperta davvero ad ogni soluzione, sol che la Juve, pur inferiore sul piano dei... chili di talento, avesse saputo o potuto giocarsela attingendo ad ogni sua più recondita risorsa. L'ULTIMO GRADINO - Insistere sul concetto di "testa altissima" poi ci sta, beninteso, soprattutto dopo essersi approcciati alla grande soirée di Berlino quasi pretendendo e rivendicando il ruolo di sfavoriti, all'insegna del "tutto ciò che arriverà in più sarà un trionfo". Per quanto mi riguarda, lo ribadisco, il concetto era vero solo in parte, e forse questo difetto di personalità è una delle cose che manca, alla Juventus quadricampione d'Italia, per tornare davvero a volare più in alto di tutti anche fuori dei confini. Oltre, naturalmente, a qualche calciatore in più in grado di spostare equilibri consolidati: ma i blaugrana di Enrique, più borghesi (proletari proprio no...) e meno nobili di quelli di Guardiola, erano superabili anche con chi già c'era, coi Tevez e i Morata. I VERI DREAM TEAM - Onore ai campioni d'Europa, in ogni caso: concreti, si è detto in apertura, perché in grado di capire quando è il caso di smettere di specchiarsi e cominciare a tirare di sciabola. Tatticamente più tradizionali rispetto al... regno di Pepp, e aggrappati a un quartetto di "mostri". I tre lì davanti, ognuno dei quali, però, deve rinunciare a qualcosa di se stesso (spazi, giocate) per il corretto funzionamento del complesso, e Iniesta un po' più dietro, metronomo, inventore e rifinitore, uno per il quale il trascorrere degli anni sembra non incidere.
Eppure, chiudendo il cerchio con quanto detto all'inizio, le squadre "extraterrestri" credo siano ben altre: lo sono state lo stesso Barcellona del periodo 2009 - 2011, o il Bayern tante volte ammirato in questi ultimi anni, anche se incoronato da una sola Coppacampioni (e anch'essa sofferta, due anni fa col Borussia Dortmund); lo furono i due Milan di Sacchi e Capello, che in finale travolsero gli avversari. Resta il fatto che il calcio spagnolo si è portato a casa quattro coppe europee su quattro negli ultimi due anni, e siamo a otto su quattordici dal 2009 a oggi: se le Furie Rosse di Del Bosque hanno conosciuto un (momentaneo?) declino e han dovuto ripartire daccapo dopo Brasile 2014, il calcio iberico di club non cede, e ha ormai distanziato anni luce i Paesi rivali, anche le opulente Germania e Inghilterra. Riguardo all'Italia, come già avevo scritto in questo post, è stata la stagione della "ripresina", ma non ci si può accontentare.