Che sia poi un tipo eclettico lo si può capire scorrendo il suo curriculum in cui egli salta abilmente da un genere all’altro. E se questo non fosse sufficiente, per amplificare il suo tratto poliedrico basta prendere in esame una qualunque delle sue pellicole in modo da capire che anche solo una singola opera stratifica all’interno molteplici registri.
Ora, se si tiene conto che Sono nel 2008 ha partorito quella splendida follia che è Love Exposure, e appena due anni dopo ha rincarato la dose con il mastodontico Cold Fish, una mente razionale asserirebbe che nel 2009, anno di questo Chanto tsutaeru, le cose dovrebbero seguire il medesimo andazzo e perciò sarebbe lecito attendersi la solita (e piacevole) bastonata sui denti di sononiana potenza.
Invece no. Nonostante il film in questione sia compreso tra due opere che non esito a definire incredibili, il risultato complessivo sembra uscito fuori dalla mano di qualunque altro regista, ma certamente non da quella di Sion Sono.
Sebbene l’asse portante della sua intera produzione sia qui presente – ancora una volta la famiglia è il nucleo concettuale –, l’autore giapponese abbassa il tiro per virare in territori che lasciano di stucco trattandosi di lui medesimo. Va quindi subito detto: niente sangue, niente carneficine, niente incesti, niente devianza, ma soltanto doloretti, certamente grandi, eppure depotenziati dall’ordinarietà con cui vengono proposti. Aldilà del fatto che l’intima dedica al proprio padre intenerisce anche un duro spettatore come il sottoscritto, ho vissuto il dramma genitoriale e intragenerazionale (papà malato di cancro e figlio ventisettenne pure) con freddo distacco, e questo è dovuto ad una questione che non credo di sbagliare se definisco oggettiva.
Sono non è mai stato un manipolatore del dramma ma bensì un abile rimodellatore. La forza tellurica sottostante i suoi lavori si deve al mix di trovate che danno nerbo alle vicende, e non si tratta praticamente mai di storie percorribili realisticamente, tutt’altro, le suddette storie sprigionano un tale tasso weirdoso da renderle, per forza d’ossimoro, credibilmente improbabili.
Con Be Sure to Share non accade niente di tutto ciò perché alla drammaticità vengono sottratte quelle componenti che in passato e nel futuro esalteranno le opere di Sono. Quel che resta allora è una normale rappresentazione della tragedia senza particolari picchi se non la scena poetica (vera rarità nella sua arte) in cui il figlio riesce a realizzare il proprio desiderio.
Mai uscito dai confini del Giappone (per questo motivo ho lasciato il titolo originale) se non per alcuni festival, l’ultimo è quello di Torino che ha dedicato una retrospettiva al regista, Chanto tsutaeru è opera pressoché anti-programmatica nonché negativamente allineata ad un cinema troppo comune per poter emergere.
Sono ha fatto di meglio, ma credo che questo lo sappia lui stesso.