Ieri sera, durante il Literary Gala del PEN American Center, il settimanale satirico Charlie Hebdo ha ricevuto il PEN/Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award. La scelta da parte dell’associazione di premiare la satira senza freni del magazine francese, però, ha causato un dibattito che non accenna a fermarsi.
Il PEN/Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award è un premio conferito ogni anno a personalità del mondo del giornalismo e della letteratura che per il loro coraggio sono ritenute simbolo della libertà di espressione. Si tratta di un premio dal significato importante, soprattutto in un contesto mondiale che vede la stampa fortemente limitata non solo in quello che viene tradizionalmente (e forse simplicisticamente) considerato il “terzo mondo”, ma anche nell’area occidentale e in quei Paesi ritenuti emblemi della libertà (al riguardo è interessante il 2015 World Press Freedom Index). A questa grande attualità della questione si unisce l’effettivo supporto di PEN International ai giornalisti e agli scrittori che, in giro per il mondo, si trovano a dover lottare per la propria sicurezza a causa delle proprie opinioni. Un’associazione, insomma, che non si limita a premiare retoricamente e banalmente le varie “personalità dell’anno” ma che si pone come obiettivo una lotta attiva e determinata. Mentre in passato il premio non era mai stato al centro di grandi dibattiti, quest’anno le cose sono andate diversamente. La decisione di conferire il riconoscimento alla redazione di Charlie Hebdo, infatti, ha incontrato l’opposizione di una fetta di opinione pubblica che è andata mano a mano ingrandendosi. Ma come mai questa protesta?
I FATTI
Il contesto è noto. Charlie Hebdo viene fondato nel 1970 e si configura come un periodico dedito ad una satira fortemente critica, irriverente e spesso offensiva. I soggetti presi di mira sono diversi: si passa dai personaggi di punta della politica francese alle autorità religiose cattoliche e islamiche.
È proprio la satira alla religione islamica a portare alla fama Charlie Hebdo. Nel febbraio del 2006, infatti, il periodico propone le famose caricature di Maometto, dodici vignette raffiguranti il profeta apparse per la prima volta sul quotidiano danese Jyllands-Posten il 30 novembre 2005. La polemica, già esplosa al tempo della prima pubblicazione, si fa serrata. Molte comunità islamiche si indignano, sia per il tono sarcastico e satirico dell’opera che per il fatto in sè (la religione islamica proibisce la rappresentazione del profeta).
Il primo attentato A Charlie Hebdo avviene nella notte tra il 1° e il 2 novembre 2011. Il lancio di alcune bombe molotov distrugge la sede del giornale. La tempistica è precisa: il 2 novembre esce un nuovo numero della rivista, incentrato sulla vittoria del partito fondamentalista islamico alle elezioni tunisine. In seguito all’avvenimento, il direttore Charbonnier viene posto sotto la protezione di una scorta.
Il 7 gennaio 2015, a Parigi, la sede del settimanale viene presa d’assalto da due uomini armati di kalashnikov. I morti sono dodici tra giornalisti, vignettisti, collaboratori, addetti alla manutenzione e alla sicurezza e agenti di polizia. Ad essi si aggiungono altre cinque vittime in seguito agli sviluppi dell’attentato.
PREMIO A CHARLIE HEBDO: PERCHÈ NO?
La protesta nasce da un nucleo di sei autori appartenenti al PEN: Peter Carey, Teju Cole, Francine Prose, Michael Ondaatje, Rachel Kushner e Taiye Selasi. Selezionati come “table hosts” della serata, i sei decidono di non partecipare all’evento. A loro si uniscono altri 29 membri del PEN e, mano a mano che la notizia prende corpo e si diffonde, varie voci dell’opinione pubblica.
Il nocciolo della critica è il seguente: conferire il premio a Charlie Hebdo è sbagliato, perchè la satira offensiva nei confronti dell’Islam operata da parte del giornale si basa su un principio di “equità” (ogni religione e ogni persona viene criticata) applicato ad una società “non equa” (la minoranza musulmana francese è spesso emarginata, discriminata e sfavorita). Il risultato è far sentire ancora più emarginata una fetta di popolazione che già si ritrova ai marigini della società e rafforzare il pregiudizio anti-islamico diffuso in Occidente. Per questo motivo, sarebbe stato meglio conferire il premio ad un candidato che non solo esercitasse il diritto di espressione, ma il cui modus operandi non fosse l’attacco pesante e spesso imbarazzante a una minoranza bistrattata e vista con sospetto.
Si tratta, insomma, dell’impressione che il premio rappresenti un implicito giudizio favorevole riguardo ai contenuti del settimanale francese, giudizio visto in netto contrasto con quella che è sempre stata la politica e la direzione del PEN.
L’opinione dei 35 ha riscosso un certo consenso. A favorirla, certamente, è stato anche un discorso più semplice. Come avviene con ogni episodio del genere, in seguito all’attentato Charlie Hebdo è diventato un simbolo. Eletto ad eroe ed emblema del diritto di espressione, il suo nome è apparso su ogni giornale, ogni canale televisivo, ogni social network. La retorica ha in qualche modo svuotato di significato quelle morti, rendendole uno sfondo nero con sopra una scritta bianca: “Je suis Charlie”. In molti si sono scagliati contro questa banalizzazione, chiedendo di non trasformare l’accaduto in una mera propaganda, chiedendo di pensare davvero ai risvolti inquietanti di quelle morti. Tra questi, gli stessi redattori del periodico (Jean-Baptiste Thoret, in una recente intervista per npr.org, si è chiesto se non sia un po’ tardi per essere Charlie). Si capisce come una situazione del genere sia stata un terreno fertile per l’opposizione a quella che potrebbe essere un’ulteriore eroicizzazione retorica di Charlie Hebdo, una divinizzazione di un settimanale che fino al 7 gennaio conoscevano in pochi.
Photo credit: Mona Okiddo-Eberhardt / Source / CC BY-SA
PREMIO A CHARLIE HEBDO: PERCHÈ SÌ?
Allo stesso tempo, molto compatto è il fronte di chi sostiene la scelta del PEN a favore di Charlie Hebdo.
Innanzitutto, si rende necessario per correttezza un ridimensionamento dell’intera questione “Charlie vs. Islam”. Come analizzato dal quotidiano francese Le Monde, le prime pagine sull’Islam rappresentano solo una minima parte del totale delle copertine del settimanale (7 su 523). Certo, hanno fatto scandalo e hanno portato a risvolti tragici, ma parlare di Charlie Hebdo come se fosse un magazine ossessionato dalla satira nei confronti dell’Islam non solo è esagerato, ma è anche una chiara manipolazione dei fatti. I temi maggiormente trattati riguardano la politica, e anche nell’ambito delle vignette a sfondo religioso sono quelle sul Cristianesimo a farla da padrone. Alla luce di questo, le accuse dei no-Charlie paiono molto simili agli onnipresenti “non fa ridere” e “ve la potevate evitare” che campeggiano sotto ogni singolo post della pagina facebook di Spinoza.it.
Fondamentale è, inoltre, tenere in considerazione il premio del quale si sta parlando. Se Charlie Hebdo avesse ottenuto il premio Pulitzer, lo scandalo sarebbe stato giustificato. Anteporre la tragica vicenda del gennaio di quest’anno all’effettivo merito letterario/artistico, sul quale si fonda e si è sempre fondato il Pulitzer, sarebbe stata una presa in giro, un’umiliazione per il mondo giornalistico, letterario e per la stessa redazione francese.
Non si sta, però, parlando del Pulitzer, ma del Freedom of Expression Courage Award. Un premio che sin dal nome si configura come un riconoscimento al coraggio nel perseguire la propria libertà di espressione. Non si parla di eccellenti meriti artistici. Si parla di forza. Quattro anni fa, dopo che la loro sede era stata distrutta dalle bombe molotov, i giornalisti di Charlie Hebdo hanno continuato a scrivere e a disegnare. Con la stessa irriverenza, le stesse oscenità, che possono piacere o non piacere, che possono essere considerate oro o spazzatura. Quattro mesi fa, dopo che parte di loro era stata uccisa, quei giornalisti si sono accampati nella sede di Libération e hanno continuato a lavorare al numero successivo. Con la stessa attitudine, la stessa blasfemia, ma con molta rabbia in più. Difficile sostenere che alla redazione di Charlie sia mancato il coraggio.
A tutto ciò si aggiunge una questione strettamente legata al concetto stesso di libertà di espressione. Chi si oppone all’assegnazione del premio a Charlie Hebdo lo fa ritenendo che alcune questioni siano troppo delicate per essere soggetto di satira. Ma quali sono le conseguenze di un’affermazione di questo tipo? Il fatto che la Francia non sia stata e non sia tutt’oggi in grado di procedere con una effettiva integrazione delle minoranze islamiche, rende tali minoranze intoccabili per definizione? Rende una religione passibile di irriverenza e un’altra no? La selezione di una serie di questioni “da non toccare” non snatura il concetto stesso di satira? E il fatto che una parte del mondo della politica, quella mattina, stesse ridacchiando felice di avere un nuovo strumento per sparare a zero contro l’Islam, rende di conseguenza Charlie Hebdo complice? O lo rende piuttosto vittima di una becera strumentalizzazione, alla quale ora si aggiunge il buonismo in stile “però magari quella battuta potevate risparmiarvela”?
La complessità della questione è evidente. Se da un lato ridere di una minoranza che fa fatica ad integrarsi può essere visto come di cattivo gusto e crudele, dall’altro bisogna ricordare come la redazione di Charlie Hebdo, indipendentemente dai suoi contenuti più o meno piacevoli, abbia pagato la propria libertà di espressione con la vita. E, soprattutto, bisogna rendersi conto dell’assurdità insita nell’idea stessa di non omaggiare un sacrificio del genere perchè, forse, in qualche vignetta i disegnatori hanno mancato di tatto.
Difficile scegliere da che parte stare, proprio perchè la satira in sè è un argomento che ha sempre suscitato grandi polemiche, essendo percepita da individui diversi in modi diversi. Hanno grande significato, però, le parole che concludono un ottimo articolo dell’Economist sulla questione: “Defending free speech means defending speech you don’t like; otherwise it’s jus partisanship, not principle”.