di Riccardo Alberto Quattrini.
<<A’ moi, ma chère amie!>>
Non ci poteva credere che una cittadina di Francia volesse la morte del rivoluzionario Jean-Paul Marat. <<A me questo?>> si chiese quindi.
Sono gli anni più terribili della Rivoluzione Francese. In una casa di Rue des Cordeliers, a Parigi, Jean-Paul Marat di anni 50, deputato alla Convenzione nazionale, viene ucciso con un coltello da cucina mentre si trovava nella vasca da bagno. Ad assassinarlo è stata una giovane donna di 24 anni, giunta dalla Provincia, fermamente convinta che l’uccisione di uno dei protagonisti più crudeli della Rivoluzione, avrebbe potuto fermare il bagno di sangue in atto da qualche mese.
Ma chi era questa giovane donna che con quel gesto estremo era certa che la sua sorte sarebbe stata solamente una: salire il patibolo?
Si chiamava Maria Anna Charlotte de Corday d’Armont, era nata il 27 luglio 1768 a Ligneries, piccolo villaggio nei dintorni d’Argentan. Suo padre François de Corday d’Armont, di nobiltà povera, aveva tra gli antenati Pietro Corneille, un drammaturgo e scrittore uno dei tre maggiori del XVII secolo insieme con Molière e Racine.
Alla morte della madre, avvenuta quando era ancora in tenera età, lasciando così cinque figli, Charlotte visse un’infanzia difficile anche per il disinteresse del padre nei suoi confronti. A tredici anni fu ammessa nel convento dell’Abbaye-aux-Dames di Caen famoso per il fatto di annoverare fra le sue fila soprattutto le figlie della nobiltà decaduta. Anche in convento, nonostante qualche approccio con qualche sua coetanea, scoprì ben presto che le disparità non erano mutate, se quei luoghi dovevano essere i santuari dell’eguaglianza cristiana, le discriminazioni fra ricchi e poveri erano ben manifeste, anche dentro lo stesso clero, che comprendeva preti miserabili e altri che sfoggiavano opulenza e ricchezze. Scoprì così di amare i libri, suoi veri amici. François Raynal e Rosseau caratterizzarono la sua formazione culturale. A diciannove anni, quando furono soppresse le case religiose, 13 dicembre 1790, trovò suo padre riammogliato. Si rifugiò così dalla vecchia zia madame de Bretteville, che l’accolse nella sua casa di Caen. Se fino ad allora era perfettamente concorde con gli ideali della rivoluzione, un fatto mescolò le carte del suo destino dove, in seguito, darà vita al suo disegno. Il parroco di una chiesa di Caen (lo stesso che aveva impartito l’estrema unzione a sua madre) essendosi rifiutato di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, inseguito dalle autorità rivoluzionarie fu scovato nel suo nascondiglio nei boschi di La Delivandre e ghigliottinato nella Place du Pilori. Fu il primo a essere ghigliottinato a Caen.
Tra il 1792-1793 Charlotte frequenta gruppi di Girondini esuli in Provincia, molti si erano rifugiati proprio a Caen, matura così una sua coscienza politica che la condurrà al gesto estremo. Tutto l’astio accumulato nei confronti di Marat, esplose il 7 luglio 1793, quando sulla Gran Cour di Caen si svolse una parata dell’esercito federalista nella speranza di attirare nelle cause federalista-girotondina il maggior numero di giovani volontari. Nei giorni precedenti diversi moniti a sostegno della causa girotondina e contro il sanguinario Marat, furono urlati nelle piazze della Normandia e molti avvisi furono affissi sui muri. “Che cada la testa di Marat e la Repubblica sarà salvata… Purifichiamo la Francia da quest’uomo assetato di sangue… Marat vede la salute pubblica solo in fiume di sangue, ebbene allora che scorra il suo, perché deve cadere la sua testa per salvarne altre duemila”.
Si sentì così investita dal richiamo divino che concedeva una seconda opportunità, a una donna che, come Giovanna d’Arco liberò il suo popolo oppresso dagli inglesi, così lei lo avrebbe liberato da un tiranno sanguinario.
Il pretesto per intraprendere il viaggio a Parigi, glielo fornì un certo Barbaroux, un girondino, fornendole una lettera di raccomandazione da consegnare al deputato Duperret. La lettera che aveva come destinatario il Ministero degli Interni sarebbe servita per ottenere dallo stesso Ministro, dei documenti utili ad una sua amica emigrata, una certa Mademoiselle Forbin.
Arrivata a Parigi giovedì 11 luglio verso mezzogiorno, scese al numero 17 di rue des Vieux-Augustins, all’hotel Providence nel quale si riposò fino all’indomani. Prima di recarsi all’incontro con Duperret, ella scrisse a Marat un biglietto in cui gli chiedeva un abboccamento e lo pose nella posta di casa Marat. Accompagnata da Duperret al Ministero, egli non ottenne nulla, in quanto inviso, per le sue relazioni con i proscritti. Duperret si rammaricò di non poterle essere d’aiuto, e si congedò. Rimasta sola, dopo aver appreso che in Convenzione avevano chiesto la pena di morte per i Girondini, Charlotte entrò da un coltellinaio dove acquistò un lungo e acuminato coltello dal manico d’ebano, mentre in un negozio accanto, acquistò un cappello nero a nastrini verdi per dare meno nell’occhio con il suo berrettino bianco alla “caennaise”, poi fece ritorno in albergo, dove sperava di trovare la risposta di Marat.
Con rabbia, invece, apprese che Marat era malato. Una febbre continua gli bruciava il sangue, degenerando in una sorta di orrenda lebbrosità, contro la quale non c’era alcun rimedio dell’arte medica. Così Charlotte dovette, a malincuore, cambiare il suo piano, non più colpirlo mentre era nel pieno esercizio delle sue funzioni alla Convenzione, ma nella sua casa. Si recò così in Rue des Cordelierss dove risiedeva Marat. Verso le undici, mentre saliva le scale incontrò Catherine Evrard, sorella della fidanzata di Marat che, stante le condizioni precarie di salute di Marat, dissuase momentaneamente Charlotte, ella riuscì solo a farle recapitare una lettera formulata in modo da stuzzicare la curiosità del destinatario poiché prometteva di svelare i nomi di diversi Girondini fuggiti e radunatesi a Caen.
Tornata in albergo scrisse un secondo biglietto, nel caso fosse stata respinta una seconda volta. Esso diceva:
“Al cittadino Marat, Vi ho scritto questa mattina, Marat. Avete ricevuto la mia lettera? Non posso crederlo, poiché mi si rifiuta la vostra porta. Posso sperare un minuto d’udienza? Ve lo ripeto, arrivo da Caen. Devo rivelarvi segreti importantissimi per la salvezza della Repubblica. Peraltro sono perseguita per la causa della libertà. Sono sfortunata; è sufficiente per aver diritto al vostro patriottismo.”
Senza attendere la risposta, Charlotte Corday uscì dalla sua camera d’albergo alle 19.00 e arrivò al civico 18 di Rue des Cordeliers
Alla sera dello stesso giorno ritornò, con la lettera nella tasca, nuovamente in Rue des Cordeliers. Le due sorelle Evrard, Catherine e Simonne vegliavano su di lui, con l’amore e il fanatismo, meglio che dei gendarmi. La prima rifiutò l’ingresso alla giovane Normanna, che parlò a lungo con lei. Marat, udendo una voce fresca e femminile, comprendendo che era colei che gli aveva scritto al mattino, disse a Catherine d’introdurla.
Marat era nel suo bagno, con la testa avviluppata in un asciugamano; un sudicio panno ricopriva la vasca; su un lato vi era una specie di comodino, ricavato da quattro assi messe assieme sulla cui base vi erano alcuni fogli, un calamaio e una penna d’oca.
Egli volle sapere ciò che avveniva a Caen, chiese quindi a Charlotte i nomi dei deputati rifugiati in quella città e quelli degli amministratori dei dipartimenti del Calvados e dell’Eure. Man mano che Charlotte parlava, Marat scriveva, e quando ebbe finito, esclamò:
<<Fra pochi giorni andranno alla ghigliottina!>>
Furono queste ultime parole che accesero in Charlotte Corday la scintilla che le fece brandire l’arma. Si avvicinò alla tinozza e, tratto il coltello, lo sferrò con forza nel petto di Marat. Il colpo fu assestato con tanto vigore e odio, che la lama penetrò nel petto fino al manico.
Marat ebbe solo il tempo di esclamare:
<<A moi, ma chère amie!>> disse incredulo, chiese aiuto, e spirò.
Il suo grido fu udito da un certo Laurent Basse, che piegava i giornali in una stanza vicina, che subito si precipitò nell’appartamento di Marat. Catherine Evrard e sua sorella si precipitarono nella stanza. Charlotte Corday era in piedi davanti alla finestra, immobile, non faceva il minimo tentativo di fuggire. Il fattorino che era entrato come una furia nella stanza da bagno, la colpì con una seggiola e la gettò a terra. Charlotte si rialzò, ma Basse la afferrò alla vita e la scaraventò di nuovo al suolo, trattenendola sotto le ginocchia, mentre Catherine, e altre vicine, trasportarono Jean-Paul Marat sul suo letto. Anche alcune guardie nazionali che erano nelle vicinanze, avvertite, salirono e arrestarono la Corday.
Charlotte, mentre veniva sospinta dalle guardie, passando accanto alla camera, dove giaceva Marat disteso sul letto, il cittadino Delafondrée un dentista, che era il suo principale affittuario, lo stava medicando, gli diede una rapida occhiata. Visto così, esangue, non pareva più quell’irresistibile seduttore, il grand’uomo, il liberatore del popolo. Bello, come poi lo avrebbe dipinto il suo amico Jacques-Louis David, Marat non lo era mai stato, né tantomeno nobile, era invece tarchiato, butterato in volto, con la pelle che si squamava per le continue febbri.
Solo a notte fonda, per salvarla dalla folla che l’avrebbe voluta a pezzi, i gendarmi, riuscirono a condurla in carrozza alla prigione dell’Abbaye dove i membri del Comitato di sicurezza generale la interrogarono parecchie volte, senza che mai venne meno la sua fermezza. Orgogliosa di ciò che aveva fatto, a tutti gli interrogatori che fu successivamente sottoposta, sia da parte del commissario Guellard, sia dal presidente del tribunale rivoluzionario Montanè che dal procuratore capo Fouquier-Tinville, tristemente noto per la violenza e l’ardore con cui perseguitava gli imputati. Tutto ciò non impedì a Corday di mantenere una fermezza e una tenacia, senza mai abbassare lo sguardo o proferire parole che non fossero correlate alla sua azione compiuta; “Per liberare il popolo da un mostro”. Questo era ciò che ripeteva con determinazione.
Henri Sanson era il noto boia di Parigi, egli quel mercoledì 17 luglio 1793, come tante altre persone accorse da tutta Parigi, si aggirava fin dalla mattina davanti al tribunale rivoluzionario. Verso un’ora incerta del pomeriggio, apprese da un cittadino che ne discendeva le scale, che la cittadina Corday, di Caen, cospiratrice e assassina del cittadino Marat, deputato alla Convenzione era stata condannata. Un urlo festante si levò dalla folla. Sanson allora andò nella camera dei testimoni, da lì il cittadino Richard lo condusse nella camera della condannata. I cittadini Tirasse e Monnier, uscieri del tribunale, entrarono per primi, Sanson rimase sulla porta.
Ora è lo stesso Sanson che parla nelle sue memorie.
<<C’erano nella stanza della condannata due persone, un gendarme e un cittadino che le stava facendo un ritratto. Ella era seduta sopra una seggiola e scriveva su un foglio, poggiato su un libro. La donna non guardò gli uscieri, ma bensì me, e mi fece cenno con la mano d’aspettare. A farle il ritratto era il cittadino pittore Jean Jacques Hauer che, con tratti rapidi, aveva dipinto quel volto austero che di lì a poco sarebbe caduto dentro un cesto. Quando il ritratto fu terminato, i cittadini Tirasse e Monnier cominciarono la lettura della sentenza, e durante quel tempo, la cittadina Corday piegò la lettera che aveva appena scritto, e la consegnò al cittadino Monnier pregandolo di farla recapitare a suo padre. Fu allora che si alzò e spostò la sua seggiola in mezzo alla stanza. Sedette, si tolse la cuffia, sciolse i capelli color castano chiaro, che erano molto lunghi e molto belli, e mi fece segno di tagliarli, come era usanza per le condannate a morte. Quando i capelli furono tagliati, ella ne diede una parte al cittadino pittore, il resto al cittadino Richard per la sua sposa. Io le diedi la camicia rossa, quella dei condannati a morte, che ella infilò e si aggiustò da sé. Quando mi accingevo a legarle i polsi, ella mi chiese se poteva tenere i guanti, facendomi notare le cicatrici ai polsi, procuratele da quelli che l’avevano arrestata. Le dissi che poteva fare ciò che voleva, io le avrei legato i polsi senza farle alcun male. Ella allora mi sorrise e mi disse: “Difatti, essi non ci hanno la vostra abitudine”, e mi tese le sue mani nude.
Quando salimmo nella carretta, la invitai a sedersi su uno dei due sedili, ma ella si rifiutò, le diedi ragione, in tal modo le scosse del veicolo l’avrebbero meno stancata, così lei sorrise ma non mi rispose. Appena uscimmo dall’Arcata furono in molti quelli che le gridarono dietro. Ma più si procedeva e meno numerosi erano i gridatori. Soltanto quelli che camminavano vicini a noi insultavano la condannata e le rinfacciavano la morte di Marat.>>
Henry Sanson, continua il suo racconto.
<<C’era tanta gente sulla strada che noi avanzavamo bel lentamente. Poiché ella aveva sospirato, credetti di poterle dire: – Trovate che si va a lungo, è vero? – Ella mi rispose: “Bah! Siamo pur sempre sicuri di arrivare”, e la sua voce era tanto calma e modulata come nella prigione. Nel momento che arrivammo sulla piazza della Rivoluzione, mi alzai e mi collocai dinanzi a lei per impedirle di vedere la ghigliottina. Ma ella si sporse innanzi per guardare, e mi disse: “Ho bene il diritto di essere curiosa; non l’ho mai veduta!” Credevo tuttavia che la sua curiosità la facesse impallidire, ma questo non durò che un momento, e quasi subito il viso di lei riacquistò il suo colorito, che era molto vivace.
Nell’istante che noi scendemmo dalla carretta, mi accorsi che degli sconosciuti si erano mescolati ai miei uomini. Mentre mi rivolgevo ai gendarmi perché mi aiutassero a sgomberare il posto, la condannata era salita agilmente sul patibolo. Giunta appena sulla piattaforma, dopo che Fermin, il mio aiutante, le ebbe levato prestamente il suo fisciù, ella si precipitò da sé sull’asse mobile e vi fu assicurata con le cinghie. Benché non fossi al mio posto, pensai che fosse stato barbaro di prolungare un attimo di più l’agonia di questa coraggiosa donna, e feci segno a Fermin, che si trovava presso l’asta di sinistra, di far scendere la lama. Mi trovavo ancora ai piedi del patibolo, quando uno di coloro che avevano voluto immischiarsi di ciò che non li riguardava, un carpentiere di nome Legros, il quale nella giornata aveva lavorato a riparare la ghigliottina, avendo raccolto la testa della cittadina Corday, la mostrò al popolo. Io son pure abituato a questa sorte di spettacoli, tuttavia ebbi paura. Mi pareva che quegli occhi semiaperti fossero fissi su me e che io vi trovassi ancora quella dolcezza penetrante e irresistibile che mi aveva tanto stupito. Talché gli ripresi la testa. Furono soltanto i mormorii che sentii intorno a me a farmi apprendere che lo scellerato aveva schiaffeggiato la testa, furono gli altri ad assicurarmi che essa aveva arrossito sotto questo insulto.>> (1)
Il nonno di Henri protestò presso i giornali che avevano attribuito a uno dei suoi aiutanti l’oltraggio dello schiaffo alla testa della Corday. Il tribunale rivoluzionario fece giustizia, arrestò il carpentiere Legros e gli rivalse una pubblica e severa rimostranza.
1- Adolph Thiers, “Le memorie del carnefice di Parigi”, (Henry Sanson il boia di Charlotte Corday). Capitolo “Charlotte Corday” da pagina 232 a pagina 240.
Featured image, Charlotte Corday (Arturo Michelena, 1899).
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