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Che bellezza, la mia mamma si droga

Da Trentinowine

tutto-su-mia-madreDopo un po’ di piazza imbandierata di rosso (poco) e qualche concessione canora alla nostalgia, oggi sono passato a casa di Donna Lidia. Quando sono arrivato, per lei era già tempo di pranzo e infatti stava seduta a tavola. Dunque, Donna Lidia è la madre di Cosimo ed è un’arzilla vecchietta di 96 anni. Compiuti. E’ passato il tempo, ma non ha mai tradito le sue origini contadine. Vive da sola sul pizzo della montagna, è autosufficiente e non vuole gente per casa che le dia una mano. Del resto non ne ha bisogno. Di salute sta bene, a parte una leggera sordità. Che ad un certo punto della vita l’ha fatta desistere dal guardare la televisione e, già in tarda età, le ha insegnato il piacere della lettura. Donna Lidia, mia madre, si alza ogni giorno alle cinque del mattino: fa colazione, poi, tutti i santi giorni, si prepara la pasta fatta in casa, perché quella industriale non le piace, e infine si appresta a rigovernare i suoi animali da cortile e a sistemare casa. Alle otto sta già facendo la spesa. E così procede la sua giornata fino a sera. Da 96 anni a questa parte. Oggi, vedendo che stava pasteggiando accanto ad una bottiglia di vino (Vette Sauvignon Blanc  2011 – Tenuta San Leonardo), le ho detto: “Lidia, ma lo sai che il vino fa male?. Mi ha guardato storto e mi ha risposto: “L’acqua la fa mal, la smarzis i canai”. La sua prima lingua è il dialetto e quello usa. Quindi traduco:  “L’acqua fa male, fa marcire le tubature”. Allora ho rilanciato e le ho chiesto quanto ne bevesse al giorno: “‘Na bozeta al dì, una e meza”. Traduzione: una bottiglia da sette decimi al giorno, e qualcosa in più”. A parte la prima colazione, il vino da sempre scandisce il suo tempo e accompagna i suoi pasti contadini: dallo spuntino con pane e salame di mezza mattina, al pranzo, alla cena. Lo so, perché oramai da parecchi anni sono io il suo spacciatore personale: sono io a rifornirla delle dosi con cui ogni benedetto giorno “si fa di vino”, per usare un’espressione cara allo psichiatra Enrico Baraldi. Forse mia madre “tecnicamente” è una drogata. Felicemente, mi pare. E non è poco. Di certo non sarò io a farla smettere; anzi continuerò a girarle la maggior parte delle bottiglie che, immeritatamente, arrivano a casa mia e che io di norma non bevo. Ripeto, non so se mia madre sia una tossicodipendente. Ma mi pare, ad occhio, che i suoi novantasei anni non ci azzecchino un cazzo con le novantasei volte di Donna Ada, di cui raccontano Alessandro Sbarbada e Enrico Baraldi nel loro libro “Vino e Bufale”. Donna Lidia, per come la conosco e per quanto la conosco, mi sembra non appartenere nemmeno da lontano a quell’umanità triste e desolata, in cui i due autori cercano da anni di incastrare, come in una caricatura, il mondo del vino, l’abitudine al vino e il piacere del vino. Naturalmente, non mi sogno nemmeno lontanamente di portare in giro l’icona di Donna Lidia come una madonna pellegrina per convincere qualcuno che con la droga vino ci si può anche allegramente convivere; cosa che invece fanno  i nostri due eroi quando illustrano minuziosamente i loro casi umani, per convincerci del contrario. Io mi tengo la mia mamma così com’è: drogata e felice.  Senza la pretesa di farne una regola statistica. A loro lascio volentieri Donna Ada e le sue novantasei cartelle cliniche, con cui implementare i loro plateali modelli statistici ed epidemiologici.

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