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Giorgio Forattini non mai stato un grande disegnatore, ma da qualche tempo il suo tratto s’è fatto sempre più grossolano, qua e là perfino incerto, con una drastica caduta della qualità estetica della vignetta. Ma il segno più evidente di quello che ormai appare un irreversibile inaridimento della sua produzione è l’ormai costante ripiego nello stereotipo propagandistico, col compiaciuto e compiacente cedimento allo sbrego che insulta ma non offende, colpendo ma senza lasciar segno, come a cercare unicamente la risata grassa e col massimo risparmio.
Guardi una sua vignetta, riconosci la mano di Forattini e ormai non puoi più fare a meno di pensare: si ripete sempre peggio, sopravvive di autocitazioni che vanno a elemosinare credito a una attenzione sempre più pigra, a un lettore sempre più fidelizzato in una complicità di cui si sono smarrite le ragioni del patto e che rimane sospesa nell’abitudine a una cifra sempre meno curata. Non ha più niente da dire, Forattini, e tuttavia lo sbraita. Il sornione ha lasciato posto al bolso, il caustico all’irritante, lo schiaffo allo sputo. Che brutta fine.