Steve Jobs (USA, UK 2015) Regia: Danny Boyle Sceneggiatura: Aaron Sorkin Tratto dal libro: Steve Jobs di Walter Isaacson Cast: Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels, Katherine Waterston, Michael Stuhlbarg, Perla Haney-Jardine, Ripley Sobo, Mackenzie Moss, John Ortiz, Sarah Snook Genere:
Steve Jobs era un brutto figlio di buona donna. Era egoista. Egocentrico oltre ogni misura, tanto che non esitava a paragonarsi a Dio. Era un sociopatico, o qualcosa del genere. Amava farsi odiare dalle gente o, semplicemente, non gliene fregava niente di ciò che pensava la gente, salvo poi cercare il loro consenso attraverso le sue popolari creazioni. Il suo contributo al mondo dei computer è stato più a livello estetico che non pratico. I meriti delle sue invenzioni più geniali forse non è che fossero tutti suoi. Lui, di suo, probabilmente non ha creato un bel niente. Può essere considerato un genio semmai del marketing, più che dell'informatica. Le persone a lui vicino le trattava per lo più da schifo e come padre è stato davvero così così. Per non dire pessimo.
"Bambina, questo computer non è un giocattolo, ma un'opera d'arte. Quindi tieni giù quelle zampe!"
Questo è il ritratto di Steve Jobs che esce dal film Steve Jobs. Non proprio l'esaltazione di una figura da American Hero o da uomo da amare e rispettare che gli iPhighetti Apple si sarebbero aspettati. Sarà per questo che agli Oscar è stato per lo più ignorato, a parte le nomine a Michael Fassbender e Kate Winslet, preferendogli pellicole ruffiane in cui si esaltano i valori genuini a stelle e strisce, come Il ponte delle spie. O sarà per questo che il grande pubblico, che magari avrebbe preferito un biopic classico incentrato su infanzia complicata + creazione dell'Apple I e dell'Apple II + discorso stay hungry, stay foolish + lancio dell'iPhone + morte, l'ha per lo più ignorato alla grande, almeno negli Usa.
Steve Jobs è un biopic bastardo. Non una celebrazione della vita di Steve Jobs, quanto un ritratto bello crudo. Veritiero o meno, questo possono stabilirlo le persone che l'hanno conosciuto di persona. Di certo quella diretta da Danny Boyle non è una pellicola-Santino e non gli concede sconti, né strizzatine d'occhio. Quella che ne esce è una figura estremamente complessa. Un genio, un rivoluzionario, un uomo che ha cambiato il mondo moderno, eppure anche una persona un pochino di merda. Non del tutto, perché i suoi lampi di umanità ce li ha, però certo che Steve Jobs, o almeno lo Steve Jobs di questo film, era un gran bel bastardone.
"Ma andiamo, io non ero come vuole far credere il film... ero peggio!"
Per quanto non ne venga fuori il ritratto di un uomo del tutto ripugnante come il pittore Turner nell'omonimo film di Mike Leigh, Steve Jobs non ne esce benissimo dalla pellicola a lui dedicata che, per fortuna, non ha niente a che vedere con il banale e dimenticabile biopic del 2013 con protagonista un inverosimile Ashton Kutcher. Questa volta a impersonare il paparino della Apple è Michael Fassbender che, più che puntare su una sterile imitazione, cerca, riuscendoci, di dare vita a un personaggio sfaccettato e finisce per somigliargli più di qualunque semplice sosia. È un approccio a un personaggio realmente esistito vicino al Johnny Cash portato sul grande schermo da Joaquin Phoenix in Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line, o più di recente dal Brian Wilson dei Beach Boys reso da Paul Dano e John Cusack in Love & Mercy. Fisicamente Fassbender non è che somigli tantissimo a Jobs, eppure il suo calarsi nel personaggio è talmente immersivo che via via che il film procede si smette di vedere l'attore tedesco e di fronte si ha l'informatico californiano. Una performance recitativa così convincente da farmi venire qualche dubbio sulla notte degli Oscar: farò il tifo per lui, oppure per il DiCaprio sventurato e malconcio di Revenant - Redivivo?
Va sottolineato che anche il cast di comprimari non è da meno: Kate Winslet non è da statuetta, quella deve andare solo e soltanto alla girlfriend nella vita reale di Fassbender Alicia Vikander, però la nomination per lei ci sta tutta.
Bravissimi poi anche Michael Stuhlbarg, Katherine Waterston, un sorprendente Seth Rogen, e le giovani interpreti della figlioletta di Steve Jobs, che sono 3... La figlia nella pellicola è una (sebbene poi Jobs abbia avuto altri 3 eredi), ma le attrici sono 3, visto che il film si sviluppa attraverso 3 differenti periodi temporali: 1984, 1988 e 1998. Un film tripartito che però riesce a non essere frammentario. Sono infatti 3 capitoli di un libro solo, di una vita sola. Un grande merito della pellicola è quello di non voler raccontare tutta l'esistenza di Steve Jobs dalla nascita alla morte, bensì di scegliere intelligentemente di concentrarsi su tre momenti fondamentali, non solo della sua carriera, ma anche della sua vita personale: i preparativi delle presentazioni di 3 sue creature.
Sì, le presentazioni. Quelle che l'hanno trasformato in una vera e propria icona dei nostri giorni, come e più dei prodotti stessi che ha lanciato. Sintetizzare la vita di un uomo attraverso 3 soli spezzoni può risultare un'impresa impossibile, ma lo sceneggiatore Aaron Sorkin non si è fatto scoraggiare. Seguendo come modello proprio Steve Jobs, uno che aveva fatto della sfida all'impossibile la sua missione di vita, il film riesce a tirare fuori la storia di un uomo in maniera coerente, concentrandosi su pochi personaggi che gli girano intorno e che ritornano tutti proprio prima delle 3 presentazioni fondamentali della sua carriera. Ovvio che ci sia qualche forzatura narrativa, però l'impianto della sceneggiatura di Aaron Sorkin funziona così alla perfezione che non si può fare altro se non alzarsi in piedi e applaudirlo, manco fossimo di fronte a una presentazione proprio di Steve Jobs. In pieno stile Sorkin (lo sceneggiatore tra l'altro delle serie The Newsroom e West Wing e dei film The Social Network e L'arte di vincere - Moneyball, ma anche di quel piccolo cult di Malice - Il sospetto) i dialoghi sono incalzanti e senza sosta. Chi non ama i film molto parlati è quindi avvisato e si prepari a 2 ore di parole parole parole.
"Stay hungry, stay foolish."
"Hai ragione, Steve, sto davvero hungry. Adesso infatti vado a farmi un bell'hamburger."
A voler fare i pignoli, a voler fare i precisini perfettini rompini come Steve Jobs, se interpretazioni e sceneggiatura sono impeccabili, qualche mancanza la si può trovare nella regia. Danny Boyle conferma le sue doti camaleontiche, quelle che l'hanno portato a girare pellicole diversissime tra loro come il cult assoluto Trainspotting, i sottovalutati Una vita esagerata e The Beach, i sopravvalutati The Millionaire, 28 giorni dopo e Sunshine, oltre all'interessante survival 127 ore e al pasticciato recente In trance. Lavori che tra loro hanno poco in comune, se non un gran senso del ritmo, spesso concitato e frenetico, e un uso accurato della colonna sonora, tra pop, rock ed elettronica. A parte il ritmo sostenuto, il nuovo Steve Jobs con i suoi precedenti non ha molto a che fare. Persino l'utilizzo delle canzoni questa volta è parecchio contenuto, ed è messo in risalto più che altro con l'emozionante brit-rock di “Grew Up at Midnight” dei Maccabees suonata in chiusura. Danny Boyle qui gioca a nascondersi. A far sentire la sua mano il meno possibile, e forse non fa nemmeno male. È quasi come se volesse riservare i riflettori solo agli straordinari attori e alla sceneggiatura perfetta. E poi naturalmente a Steve Jobs. Uno Steve Jobs stronzo, antipatico, pieno di sé, così facile da odiare che alla fine non si può che amare. (voto 7,5/10)