Che colore ha la clorofilla aliena?

Creato il 31 ottobre 2013 da Media Inaf

Una ricercatrice NASA ha raccolto gli spettri dei diversi tipi di pigmenti fotosintetici terrestri che, assorbendo specifiche lunghezze d’onda della radiazione solare, danno una "colorazione" tipica alla luce riflessa dal pianeta. Un’impronta inconfondibile che può teoricamente essere rilevata anche su mondi alieni.

di Stefano Parisini 31/10/2013 11:28

L’immagine della Terra a sinistra è in luce visibile. In quella a sinistra è stata enfatizzata la componente del vicino-infrarosso, che evidenzia le zone con vegetazione. Crediti: NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Carnegie Institution of Washington

La fotosintesi clorofilliana, tormentone per gli studenti a scuola, è un astuto meccanismo di trasformazione della radiazione solare in energia chimica. Un processo fondamentale per la vita sul nostro pianeta ma, presumibilmente, anche su mondi alieni.

Se i processi di fotosintesi forniscono alla Terra vista dallo spazio un’impronta caratteristica, alcuni esobiologi si sono posti il problema di come tale impronta potrebbe apparire in pianeti extrasolari. Per trovare risposte, uno dei passaggi è raccogliere informazioni sull’intera tavolozza di colori a cui attingono i processi fotosintetici terrestri.

La vita sul nostro pianeta si è adattata in funzione della luce proveniente dal Sole. I pigmenti delle piante, come la clorofilla, selezionano le lunghezze d’onda della radiazione solare: assorbono principalmente nell’ultravioletto e nella parte rossa dello spettro visibile, mentre disperdono quasi tutto il verde e l’infrarosso. La ripida caduta di assorbimento dal rosso al vicino-infrarosso, denominata vegetation red edge (VRE), è un indicatore sicuro della presenza di vegetazione viva, ed è così pronunciata e ubiquitaria che può essere rilevata a distanza dalla Terra.

Ma le piante non sono gli unici organismi terrestri a riempirsi il serbatoio di luce solare: esistono diversi batteri fotosintetici che utilizzano un insieme di pigmenti completamente differenti per assorbire la luce.

Nancy Kiang del Goddard Institute della NASA, ha studiato questi batteri e comparato gli spettri dei loro pigmenti, per arrivare a comprendere come si sviluppi evolutivamente la capacità di raccogliere la luce per produrre energia. «Ogni pigmento fotosintetico deve adattarsi a specifici ambienti e vincoli molecolari,» spiega Kiang.

Per aiutare gli scienziati a immaginarsi come potrebbe adattarsi un pigmento su un pianeta alieno, Kiang ha dato vita al Biological Pigment Database,  una banca dati – inserita nel Virtual Planetary Laboratory – che raccoglie i dati spettrali di un’ampia varietà di pigmenti e altre molecole rilevanti per la fotosintesi.

Diversamente adattati

Non tutte le molecole fotosintetiche lavorano nella stessa maniera. Il pigmento più familiare è la clorofilla, di cui esistono diverse varietà. La più rilevante è la clorofilla “a” che, assorbendo principalmente nella parte blu-viola e rosso-arancio dello spettro, rappresenta la scelta naturale per piante e alghe che vivono alla luce diretta del Sole. La clorofilla “d”, scoperta solo nel 1996, sfrutta maggiormente le lunghezze d’onda rosse e rappresenta un buon esempio di adattamento per organismi che vivono in condizioni sottomarine di scarsa illuminazione, come alcuni batteri e alghe rosse.

L’energia ricavata dal sole viene utilizzata nella fotosintesi per ridurre il monossido di carbonio in nutrienti carboidrati, spezzando le molecole d’acqua per ricavarne elettroni e rilasciando, come sottoprodotto, ossigeno. Tuttavia questo è un processo energeticamente abbastanza dispendioso, tanto che alcuni batteri anaerobici meno esigenti, come i solforiduttori, si servono del solfuro d’idrogeno come riserva di elettroni al posto dell’acqua. I pigmenti fotosintetici di questi batteri vengono definiti batterioclorofille.

In definitiva, i diversi pigmenti possono essere distinti in base all’insieme di lunghezze d’onda a cui assorbono luce. Ogni specifica gamma può essere vista come il migliore compromesso tra due limitazioni: l’energia disponibile e l’energia necessaria. In altre parole, un pigmento deve essere adatto alle specifiche condizioni di luce in cui vive l’organismo e al contempo fornire sufficiente energia alle reazioni chimiche su cui si basa l’organismo ospitante.

Dalle piante ai pianeti

Spettro di assorbimento della clorofilla a. Crediti: University of Wisconsin-Madison

Il Biological Pigment Database contiene attualmente informazioni sugli spettri di assorbimento per una cinquantina tra clorofille, batterioclorofille e altri pigmenti secondari che pure assorbono radiazione luminosa, trasferendone poi l’energia ai pigmenti principali.

Per renderlo più completo, Kiang ha iniziato ad ottenere anche gli spettri di riflessione per vari campioni biologici, perché è proprio nella luce riflessa da un pianeta che gli astronomi possono rilevare indizi di attività biochimica.

«Il database può essere usato dagli scienziati che stanno cercando le impronte spettroscopiche della vita sugli esopianeti,» conferma Jonathan Lindsey della North Carolina State University, che ha contribuito a rinfoltire l’archivio.

Si potranno quindi inserire differenti pigmenti in un modello planetario, in modo da predire come dovrebbe risultare la luce riflessa da un pianeta in cui avvenga attività biologica fotosintetica. Per esempio, si potrà sapere che “colorazione” assume un ipotetico pianeta ricco in solfuro di idrogeno e ricoperto da solfobatteri verdi od organismi simili.

Pigmenti alieni

Naturalmente non è dato sapere che tipo di pigmento verrebbe utilizzato da un fotosintetizzatore alieno. Tuttavia Kiang è fiduciosa che tali ipotetiche molecole possano non differire troppo da quelle terrestri.

Studi sui criteri per un sistema fotosintetico ottimale indicano infatti che le molecole convergono verso una specifica architettura. Per esempio le clorofille si costituiscono attorno a uno scheletro di molecole ad anello, le porfirine, che le rendono particolarmente efficienti nel trasferimento energetico.

Pur con tutte le cautele del caso, agli scienziati non appare quindi infondato supporre che un organismo alieno, nella costruzione evolutiva della propria chimica fotosintetica, possa avere seguito percorsi di ottimizzazione simili a quelli che hanno dato origine alla fotosintesi clorofilliana.

Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini



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