Il titolo del romanzo di Scott Fitzgerald ha una fluidità fonetica che colpisce: Al di qua del Paradiso. – Che cosa c’è “al di qua” di esso? – ci si domanda: non si distingue se il referente siamo noi o l’autore, il cui spirito senza meno, continua ad essere in ciò che ha creato.
Appartenente a un’élite privilegiata di baldanzosi rampolli, Amory Blaine è un personaggio interessante. All’inizio del suo percorso è un ragazzo bello e viziato senza ambizioni più nobili come la maggior parte dei suoi coetanei, né un’intelligenza più spiccata. Per tutti loro il benessere economico, il riconoscimento sociale, il divertimento sono le basi dell’esistenza; mentre, invece, il fallimento, l’esclusione sociale e la povertà sono "il terrificante" da allontanare con ogni mezzo.
Nel romanzo c’è la vita del giovane, dai primi anni al periodo degli studi a Princetown, al primo lavoro come pubblicitario, un accenno alla Prima Guerra Mondiale, intesa come intoppo nella quotidianità del vivere rivoluzionario di Amory; il rapporto con la madre e con la generazione precedente (compreso il forte legame con lo zio) e senza meno, il quotidiano con i suoi coetanei.
LE MASCHIETTE DI SCOTT
Quello che Scott Fitzgerald ci racconta è un mondo nuovo, forte, sicuro di sé. Un mondo di giovani convinti di aver già visto tutto, di essere quasi invincibili (salvo cadere spesso in profonde crisi d’identità).
Amory e i suoi colleghi non riconoscono ciò che li ha preceduti, sono consapevoli di essere testimoni (anzi protagonisti) di un cambiamento nel modo di portare avanti la vita quotidiana.Sono quasi dei filosofi del tempo che vivono.
Basta con la lentezza e la pacatezza vittoriana, ora è tempo di correre! E in Al di qua del Paradiso si corre in tutti i modi.Si corre in macchina, sfoggiando ricchezza e potenza, si corre nelle esperienze della vita, in un modo inimmaginabile fino a dieci anni prima.
Nell'opera di Fitzgerald, il primo romanzo, Di qua del paradiso, resta, con il suo soggetto tematico, un'eccezione: il potere di dire, di dirsi, nasce dalla sensazione di estraneità di fronte al mondo dominato. Negli altri romanzi, il potere di dire e di raccontare, di scrivere, emerge dalla constatazione dell'impossibilità, nel mondo, di ritornare a ciò che potrebbe giustificare pienamente questa affermazione. Questo difetto di giustificazione non deve essere letto in modo negativo ma offre l'opportunità di interpretare l'America. Gatsby, Dick Diver, Monroe Stahr sono degli interpreti dell'America.
Fitzgerald, a differenza di altri romanzieri della sua epoca, non disegna, nei suoi romanzi, alcun possibile, non suggerisce nessuna via di realizzazione storica. Offre la visione di un'altra America: quella di un universo che farebbe la somma degli spazi americani, dei mondi della storia americana, della società presente dove le azioni degli uomini corrisponderebbero a principi morali.Quest'universo è ideale ed istituisce un senso. Permette di misurare la tragedia americana e, conseguentemente, mettere personaggi, narratori, lettori, nella situazione in cui possono intraprendere la lettura di questo mondo, di reagire.
L'opera di Fitzgerald stabilirebbe dunque la grande attesa di un tempo nuovo, di un tempo dove ciascuno, conoscendo l’elemento remoto della tristezza ed il valore del fallimento, potrebbe possedere il mondo americano.
Secondo un critico, una poesia di Rupert Brook lo avrebbe ispirato: la rinuncia alle illusioni, "paradiso" dei giovani, e la convinzione che la cosiddetta saggezza degli adulti non sempre è da preferire all’ingenuità dei ragazzi.
Secondo Gertrude Stein
il romanzo è immaginosa fotografia di mentalità e costumi dell’epoca, ed anche il creatore della nuova generazione, quella dell’"età del jazz" e degli "anni ruggenti", il decennio 1919-1929. La prima guerra mondiale aveva infatti smascherato non pochi dei falsi ideali del passato, ed i giovani americani tentano di reagire in qualsiasi modo: dissacrazione di tutto, della famiglia e dei costumi tradizionali. Ecco perché Di qua dal paradiso è visto dalla "generazione perduta" come un manifesto.