Su una cosa siamo tutti d'accordo: in tempi in cui il lavoro manca, la quantità di lavoro prende molte più attenzioni rispetto alla qualità.
Lo testimonia l'interesse che si solleva ogni volta che le istituzioni danno notizia dei dati su occupazione e disoccupazione nel paese. Per la politica si tratta di indicatori fondamentali: nessun governo vuole essere ricordato come quello che ha creato disoccupazione e scoraggiato i cittadini dal cercare un lavoro. L'attuale governo, soprattutto, cerca di cavalcare l'onda mediatica degli aumenti di occupazione stabile derivati dalle riforme a cavallo tra 2014 e 2015.
Ma la quantità è proprio tutto?
È bene ricordarsi che per quanto siano una cartina tornasole fondamentale, i numeri non dicono tutto. Ad esempio non dicono della qualità del lavoro che si perde o che si crea quando gli indici di disoccupazione salgono o scendono. È giusto che sia così: i numeri tendono ad essere oggettivi, mentre il parametro della qualità non lo è.
Ad esempio, un tema caldo del momento è il superamento reale o meno dei contratti di collaborazione a progetto – i "co.co.pro.". Non è un mistero che dietro questa forma di contratto parasubordinato (cioè nella zona grigia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente) si nasconda nemmeno troppo velatamente un abbassamento di tutele e costi connessi che ha come unico scopo quello di mantenere in vita aziende che "galleggiano" in settori così improduttivi da non poter resistere alla concorrenza se giocassero con le regole dei rapporti di lavoro subordinati standard.
Altro che sviluppo di un progetto, assenza di orari, assenza di luogo fisico e libertà per il lavoratore…la possibilità di retribuire solo a risultato e di sfruttare la gestione separata INPS come modalità contributiva (che è molto più bassa rispetto a quella garantita dal contratto standard) sono le vere chiavi che hanno determinato (non in tutti ma nella maggior parte dei casi) il successo dei co.co.pro. nel periodo degli "anni zero". Gli squilibri pazzi del mercato del lavoro degli ultimi anni, poi, hanno reso appetibile anche un tipo di lavoro a condizioni di sotto-tutela, andando quindi ad ingrossare le fila dei collaboratori fittizi o involontari.
Eppure non è detto che il lavoro del collaboratore sia di qualità inferiore. Non è mai abbastanza ripetere che il guaio del mercato del lavoro italiano non è tanto la fuga dal contratto subordinato, ma la mancanza quasi assoluta di tutele per il lavoratore autonomo genuino, a fronte (soprattutto) di una tassazione francamente troppo alta ed ingiusta. Come dire: lavoro subordinato, tutelato dal datore, non ce ne è, ma se ti metti in proprio, allora forse è per evadere, quindi tasse. Un po' scorretto per chi vuole essere "imprenditore di se stesso", no?
Quello che i numeri non dicono, in sostanza, è proprio questo: sono soddisfatti i lavoratori stabilizzati come dipendenti? Sono soddisfatti gli autonomi? Che impulso si sta dando alla creazione di nuova impresa?
Forse, quando saranno disponibili i dati sull'utilizzo del "condono" previsto per la stabilizzazione di collaboratori e partite IVA avremo uno spaccato di quanti sono i datori che hanno preferito stabilizzare piuttosto che esporsi al rischio di una citazione davanti al tribunale da parte del lavoratore dipendente.
Forse, invece, il nostro legislatore agisce da "vorrei ma non posso", promettendo un tipo di lavoro, stabile, continuativo, strutturato, che è sempre più per pochi, mentre non dà alcuna valida alternativa a chi non si riconosce in questi schemi e che finirà, ma speriamo di no, per accontentarsi di un lavoro lasciato a metà.
Simone Caroli