Che ora è laggiù?

Creato il 18 aprile 2010 da Eraserhead

Hisao-kang, commerciante d’orologi, dopo alcuni tentennamenti vende l’orologio del padre morto ad una ragazza in partenza per Parigi di nome Shiang-chyi.
Storie di distanze.
La Francia è lontana 9818 chilometri da Taiwan. La geografia di Tsai Ming-liang accorcia i meridiani che separano i due continenti tramite lo strumento principe: il suo cinema. La trovata più brillante di tutto il film è quella di aver preso la celeberrima coppia di piccioni con una fava, perché oltre ad omaggiare la Nouvelle Vague con le sequenze de I quattrocento colpi (1959) – a proposito, sembra che Truffaut sia preferito a Resnais dal regista taiwanese –, Tsai crea un flusso che unisce una distanza assiderale tra due pressoché sconosciuti, i quali, però, condividono inconsapevolmente la stessa ordinaria esistenza, anche se lei è a Parigi per allontanarsi dall’isola di origine. È il cinema ad alleviare una malinconia di fondo che attanaglia entrambi, spesso la mdp riprendendo i loro corpi che immobili fissano il vuoto esprime quel mal di vivere che sfocerà nel pianto composto della ragazza. Tuttavia, prima delle sue lacrime amare come l’incontinenza di Hisao (ma 4 anni dopo con Il gusto dell’anguria saranno tempi di siccità), sia lui che lei trovano l’illusione in un rapporto umano sfuggente: quello con una prostituta per l’orologiaio, e un bacio con una giovane honkonghese per la ragazza. La coincidenza di questi eventi unita alla spasmodica necessità di Hisao di annullare oltre allo spazio divisore tramite il cinema, anche il tempo sintonizzando tutti gli orologi col fuso orario francese, ha un che di commozione nostalgica visto che i due non sapranno mai niente l’uno dell’altra.
C’è un’ulteriore storia di distanze che a sua volta ne contiene un’altra.
È il legame tra la madre e il figlio che pur abitando nella stessa casa è come se vivessero su due pianeti differenti, questo perché si innerva prepotentemente nella narrazione il fantasma del padre che, è il caso di dirlo, allontana la mamma da una concezione fisica della vita gettandola in mano a ciarlatani e rendendola schiava delle proprie paranoie. La distanza, ‘sta volta, è ancora più incolmabile perché la madre aspetta invano una visita spirituale nella materialità della sua vita. Contemporaneamente agli atti di bisogno della coppia platonica, pure lei trova l’illusione di diminuire gli infiniti anni luce che la separano dal marito masturbandosi con una cassetta che credo ne contenga le ceneri. È l’immagine più sarcastica della pellicola, dissacrante nel suo senso.
C’è un’ultima distanza. La più importante, la meno pareggiabile: quella tra lo spettatore e il film stesso. Tsai è senza dubbio regista raffinato, basta prendere una qualunque sequenza all’interno della casa con le sue precise angolazioni e azzeccate tonalità di colore, ed è anche consapevole dei propri mezzi perché ha il coraggio (o la boria) di fare un film senza sonoro posticipando più del consueto gli stacchi del montaggio, dando perciò vita a inquadrature “morte”, immobili, irritanti per chi non è avvezzo al cinema d’autore. Nonostante queste doti d’alta nobiltà estetica, Ni na bian ji dian è opera frigida che nella sua forma imperturbabile non suscita emozioni, almeno a me. Non si tratta di contenuto assente, tutt’altro viste le mie brevi elucubrazioni, ma proprio di sano e banale coinvolgimento.
Questo mi pensare, per l’ennesima volta, di quale metro di giudizio sia opportuno usare nel commentare un film. Vale di più un’opera stilisticamente imperfetta ma che ha trasmesso QUEL qualcosa, o un’opera signorile che però non tracima i confini dello schermo per restarsene fossilizzata laggiù?


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