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Che pena!

Creato il 30 settembre 2011 da Conflittiestrategie

La falsa sinistra, massa informe e priva di connotazione, inneggia al moralismo di Bagnasco, contando che sia un ulteriore colpo a Berlusconi. Ormai questo ammasso di inconsistenti non ha più nulla da dire e da proporre. Pensare che sia atteggiamento democratico lasciarla libera di sfasciare la società, come sta facendo da vent’anni, è soltanto dimostrazione che Berlusconi non era né fascista né capace di ripulire il nostro paese dai rinnegati del comunismo, che minacciavano di dilagare perché aiutati dagli Usa (clintoniani) e dalla Confindustria agnelliana. Gli ultimi vent’anni, e la pantomima che vi si è svolta, sono solo la lunga fine preparataci dal crollo del mondo bipolare e dai processi già in preparazione durante quella fase, soprattutto negli anni ’70 (e ovviamente ’80 come prosieguo dei precedenti). Il nuovo partito cattolico, progettato dalla Chiesa, è soltanto un’ammucchiata di altri mediocri conservatori, privi di progetti, che sappiano però difenderla da altri colpi come quelli ricevuti dagli Usa nella loro fase apparentemente più aggressiva; dico apparentemente perché oggi si dimostra che i “nuovi” Usa sono per noi, come per il mondo, ancora più pericolosi. La loro dimostrata incapacità di intervenire in prima persona e senza alcuna maschera in dati luoghi, considerati strategici per il dominio globale, li ha spinti alla strategia del caos e disordine da creare nelle varie zone per impedire che si aggreghino forze di svolta nella politica mondiale dopo il quarantennio di cristallizzazione, appunto bipolare, ed un decennio di cercato, ma fallito, monocentrismo.

L’ultimo ventennio in Italia non è stato altro che la sanzione di una distorsione della struttura sociale, della degenerazione di classi presunte dirigenti (nella sfera economica) e delle loro “proiezioni” politiche e intellettuali; precisando che tali classi, ormai al fallimento storico conclamato, hanno cercato di usare soprattutto personaggi “di ventura” (quelli denominati “la sinistra”) perché erano i più adatti alla loro inettitudine e parassitismo. Bisogna però dire che certamente il ceto medio produttivo si è fatto sovrastare da quello inutile e dilapidatore di ricchezza (base sociale della falsa “sinistra”), mostrando limiti culturali e di comprensione politica assai superiori a quelli della vecchia “piccola borghesia”, classe morta, com’era logico, con la fine della contrapposizione – ideologica, ma con effettivo aggancio reale – tra borghesia e classe operaia.

Comunque, questo è già un problema serio e non val la pena di parlarne qui discutendo di questi inetti che giocano solo all’antiberlusconismo mentre, per fortuna, il berlusconismo è in ribasso. Questo sarebbe un fatto positivo se, dalla crisi di quell’ammasso informe denominato “la destra” (o centro-destra, poco importa), potesse uscire qualche spunto interessante, sia socialmente che politicamente; non si riesce invece a vedere proprio nulla. E’ indubbio che la “sinistra” è la parte più “malata” della nostra società, in ogni suo comparto; ma anche la destra non esce da cliché vetusti quali la “rivoluzione liberale” e quindi le “privatizzazioni”. Prendiamo – solo come esempio, non si pensi ad una mia volontà di dar credito a simili nanerottoli (non per l’aspetto fisico, bando a simili volgarità) – il Ministro Brunetta. Ha affermato che si potrebbero fare bei soldi dismettendo palazzi e caserme, stabili del tutto improduttivi. Poi ha aggiunto che lo stesso vale per l’Eni e altre imprese pubbliche, “basta che il prezzo sia interessante”. Pura cialtroneria, assenza di una qualsiasi idea circa la differenza tra imprese del genere (sono improduttive?) e palazzi e caserme. Questa la levatura dei ministrucoli del governo, per silurare il quale la falsa sinistra si appella a Bagnasco!

Credo sia inutile polemizzare con simili demenzialità (comunque non pronunciate per sola stupidità, c’è pure di peggio alla loro base). Semmai, si deve invece fare attenzione agli altri superficiali che si indigneranno per queste affermazioni in quanto si dovrebbe difendere sempre il “pubblico”, sinonimo di interesse generale. No, in certi casi il “pubblico” va liquidato e la gente ivi impiegata, che non produce una qualsiasi utilità, espulsa da posti che implicano soltanto costi. Certamente, dopo anni che – per motivi di “compromesso storico”, di “concertazione” tra sfasciatori chiamati sindacati e altri sfasciatori chiamati imprenditori – è stato gonfiato un impiego “pubblico” di rara inutilità, credo sconosciuta in altri paesi capitalistici sviluppati (a dimostrazione di quali sarebbero state le potenzialità produttive del nostro paese senza questi parassiti a divorare tutto), è ovvio che si deve por mano ai cosiddetti “ammortizzatori sociali”.

Questo sarà il compito dei cosiddetti “esperti” e “tecnici”, l’importante è capire che il “pubblico” non è affatto sinonimo di interesse collettivo, generale. Tutto dipende da chi ha le redini politiche e dagli scopi che si propone. Quello che anche un asino comprende in un millesimo di secondo è che antichi palazzi e caserme non hanno la stessa valenza economica, ma soprattutto politica, di imprese come Eni, Finmeccanica, Enel. Un ministrucolo che ne affermi l’equivalenza e si dimostri interessato solo al prezzo di vendita, senza essere immediatamente squalificato e licenziato dal governo, dimostra come l’Italia sia in mano a gentaglia che la svende al “peggiore” offerente, a chi impone facilmente la sua politica di predominio su servi così meschini e disgustosi. Non c’è differenza tra questi omuncoli e quelli che si riunirono sul “Britannia” (quest’ultimo vale solo come simbolo, sia chiaro, non crediamo affatto che tutta la vile politica italiana di asservimento si sia svolta a bordo di quel panfilo; magari ci si fosse limitati a quelle decisioni). Anche da fatti come questi si capisce l’indistinzione politica tra destra e sinistra; sono semplicemente due bande in lotta per il “controllo della zona”. E sia chiaro che non valgono nemmeno il mignolo del piede sinistro di Al Capone o Frank Costello. Sono miserabili che purtroppo non conosceranno alcuna “notte di S. Valentino”, unica via di salvezza per l’Italia.

Nessuna concessione al “pubblico”, dunque, come fosse utile alla “collettività nazionale”; una collettività che fra l’altro non esiste, perché estremamente composita e con ceti sociali in interazione conflittuale. Non c’entra il “pubblico” o il “privato”. Si crede forse che Enrico Mattei si comportasse diversamente da un qualsiasi imprenditore (stratega e non semplice manager) di un’impresa “privata”? Chi lo pensa veramente è un puro fesso; ma dubito di trovarmi di fronte a fessi, so di avere soprattutto a che fare con imbroglioni e saltimbanchi della peggiore specie. Non si vende comunque l’Eni, ecc. a chi “offre un prezzo interessante”. Si stabilisce una politica di strategia italiana del tutto autonoma rispetto ad altri potentati stranieri. E si controlla, con mezzi ineludibili e pene assai dure di coercizione, che simile politica venga applicata. Sempre che valesse la pena di “privatizzare” date imprese “pubbliche”, problema che oggi non si pone nemmeno.

Certo, ci deve essere anche un controllo di congruità della gestione economica affidata a manager capaci di applicare i criteri di efficienza; tuttavia, quest’attività puramente gestionale è solo un mezzo e va quindi subordinata, magari contravvenendo se necessario al principio del minimax, agli scopi strategico-politici prioritari. Oggi, se non vogliamo prenderci per i fondelli con la recita dell’unità europea, siamo ancora in una fase storica in cui, per salvaguardare gli interessi (i livelli di vita) della maggioranza della popolazione insediata in un dato territorio nazionale, è indispensabile sviluppare una politica di autonomia propria. Nessuno predica aggressioni ad altri paesi (né europei ma nemmeno africani o asiatici, ecc.); semplice attenzione a non renderci subordinati ad altri, con depredazione delle nostre risorse e sfruttamento della produttività dei nostri ceti sociali che di questa siano i portatori. Quelli inutili, dilapidatori di ricchezza, siano gettati pian piano, con “dolcezza”, al macero. Soprattutto, però, si dia addosso all’industria e alla finanza dei semplici asserviti ai potentati stranieri. Bisogna tagliare le unghie a coloro che hanno sempre tradito l’Italia ponendola al servizio di altri; oggi, inutile fingere, si tratta in primo luogo degli Stati Uniti.

In questo momento, dunque, chiunque proponga la “privatizzazione”, in nome di principi sedicenti liberali, va attaccato non perché contravviene alla “santità” del settore “pubblico” (spesso fonte di occupazione che dilapida soltanto risorse senza alcun ritorno di utilità per nessuno, se non per chi prende un salario a fronte di una produttività pressoché equivalente a zero); va invece addirittura aggredito perché il modo in cui pone la questione (il prezzo di vendita) fa capire che è un servo e che si attiene agli interessi di chi ha una effettiva strategia politica, cioè il predominante. E’ indispensabile attuare, “pubblico” o “privato” che ne sia lo strumento, una politica necessariamente nazionale. Non per rispetto a qualche altro “sacro principio”, basta anzi con la sacralità di certe eredità di un passato che non deve più tornare! Semplicemente, si deve attualmente restare al livello del proprio paese, e collaborare con altri per resistere a chi ci vuol condurre in servitù. Collaborare, ma in piena autonomia nazionale.

Fra chissà quanto tempo, sarà forse possibile allargare la difesa degli interessi alla maggioranza delle popolazioni in aree più vaste, comprendenti vari paesi; dotandosi in tal caso dello strumento indispensabile a realizzare simile politica. Si parla tanto di Stato federale, di una sorta di Stati Uniti d’Europa. Inutile anticipare una fase storica ben al di là da venire. Gli strumenti di una politica di autonomia, e di interesse per la maggioranza della popolazione insediata nell’area europea (e non si è in grado di stabilire fin d’ora la sua estensione), saranno realizzati in “tempi più maturi”; oggi l’acerbità della situazione è più che evidente. E’ indispensabile prendere ancora le mosse dalle “vecchie” aree nazionali, che cadano però sotto il controllo di forze interessate a mantenerle indipendenti. E, sulla base di interessi comuni (o “accomunabili”), devono prendere il potere in tali aree forze adatte al compito. Non contano gli “Stati” in sé e per sé, ma solo in quanto strumenti (sistemi di apparati, di cui alcuni dediti all’uso precipuo della forza) di organizzazioni politiche che schiaccino gli attuali prevalenti schieramenti servi degli Usa, e si avvicinino fra loro solo in base alla strategia comune di autonomia delle aree (paesi) di loro pertinenza.

Siamo appunto lontani da simile prospettiva, siamo in mano a “destra” o “sinistra”, non proprio eguali fra loro ma incapaci entrambe di dar vita a veri centri di indipendenza nazionale. L’Italia, in particolare, è territorio di lotta tra “bande” tese a dimostrare il loro maggiore o minore grado di affidabilità in quanto asservite allo straniero, in particolare agli Stati Uniti. Tuttavia questi ultimi, pur nella loro politica generale di tipo “imperiale” (tendente cioè a mantenere il predominio globale, vacillante dopo le prime illusioni monocentriche susseguenti al crollo dell’Unione Sovietica), manifestano tendenze strategiche (o forse sarebbe meglio dire tattiche, ma non mi fisserei adesso su questioni terminologiche) piuttosto diverse, di cui abbiamo parlato spesso e ancora ne parleremo. Per il momento, si deve rilevare la tendenza di ogni gruppo dominante italiano, con le sue ramificazioni nella sfera politica, a non staccarsi da una piatta subordinazione a quelli in conflitto – sempre però mantenendo una forte unità nazionale – negli Usa (per questo uso spesso il termine “cotonieri” per indicare questi meschini gruppi subdominanti che devastano la nostra società nazionale).

Si guardi quale esempio preclaro al presente contrasto – tra nani – relativo alla nomina di Governatore della Banca d’Italia. Quello uscente, di cui abbiamo più volte mostrato il suo essere fidato agente di interessi statunitensi, tende, assieme al presdelarep, a voler nominare un uomo interno all’organismo, “allevato” secondo i precisi criteri del suo “tutore”. Anche la Bce – dove del resto si appresta ad arrivare tale “tutore” – appoggia lo stesso personaggio. Non può nutrirsi alcun dubbio sul completo allineamento di quest’ultimo alle politiche statunitensi. Per motivi non del tutto chiari (solo intuibili con larga approssimazione), all’ultimo momento e quando tutto sembrava deciso, sembra si sia tornati in forse per una “nuova sensibilità” di Berlusconi alle richieste del tanto “antipatizzato” suo Ministro economico. Inutile al momento schierarsi con questo o con quello. Nessuno crede che Tremonti sia un indipendentista rispetto agli Stati Uniti; semmai, forse, è uomo di collegamento tra dati ambienti americani e alcuni vaticani, ma nulla di esaltante. Tuttavia, nemmeno è da escludersi che certa “moderazione” del presdelarep nel suo sostanziale antiberlusconismo (consustanziale al suo essere “di sinistra”) dipenda dal voler portare in porto l’operazione di nomina alla Banca d’Italia nel senso voluto da ambienti d’oltreoceano (gli obamiani, non vi è dubbio). E magari certe “esitazioni” filo-tremontiane del premier nascono dagli stessi motivi, vissuti in modo opposto, per tenere l’avversario sulla corda un po’ più a lungo.

In ogni caso, sono baruffe tra litiganti che non hanno alcuna tendenza a difendere l’autonomia del paese. Ciò non significa che sia del tutto indifferente l’affermazione dell’uno o dell’altro. Esattamente come non è indifferente il netto prevalere della strategia obamiana o il suo arenarsi di fronte all’opposizione di quella contrastante, e prevalente per alcuni anni dopo l’11 settembre 2001. Tuttavia, non è questo il vero ambito della battaglia per l’indipendenza nazionale, obiettivo che, lo ripeto, non è fine a se stesso, in nome di ideali soltanto nazionalistici, ma è invece solo il passo necessario nell’attuale congiuntura internazionale per non cadere sotto la completa dipendenza dagli Stati Uniti che, con Obama, hanno spostato l’asse strategico in direzione di un più sicuro controllo dell’Europa, affidandosi però pure ad una specifica politica del divide et impera tra paesi europei, di cui parleremo in altra occasione. Adesso è sufficiente comprendere in che senso “sinistra” e “destra” giochino per la nostra subordinazione; non con medesime modalità, ma per gli stessi scopi. Qualche “lampo” di autonomia, solo dovuto alle “redini più allentate” caratteristiche dell’Amministrazione Bush, è stato adesso annientato da Obama. A come prima non si può più tornare; sarebbero necessari ben altri passi. Il “grande problema” (l’autonomia) resta quindi irrisolvibile con le attuali forze politiche ed economiche.

PS   http://www.ilgiornale.it/interni/bankitalia_saccomanni_e_quasi_fatta/30-09-2011/articolo-id=548927-page=0-comments=1

Preferisco non cambiare il finale dell’articolo e mettere questo link. Si coglie meglio l’ormai totale appiattimento del premier. Fa finta di riluttare poi esegue tutto quello che vogliono Napolitano e Draghi, cioè gli Usa. Anche per l’attacco alla Libia il medesimo comportamento. Il presdelarep esigeva l’adempimento di quest’obbligo; qualche bofonchiare di B., un sostenere che non si poteva fare a meno, ecc., e via con l’aggressione in subordine alla Nato (agli Usa). In definitiva, neanche più un cm. di spina dorsale.


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