Sono svuotata, disseccata, inaridita, ho dato troppo in questi mesi e non ho più niente da offrire a nessuno, mi è difficile persino ricevere. C’è il partito di quelli che pontificano: “Ora tocca te, ora devi essere forte, ora sei tu la colonna portante.” E ci sono quelli che ti dicono: “Continua scrivere, sarebbe un peccato, hai lì il tuo sfogo, la tua arte, la tua creatività.”
Sì, certo, ma per cosa, per chi? La risposta più banale è per me stessa. Ma non si scrive per se stessi, forse nemmeno il diario. Si scrive per incanalare le emozioni, arginarle e organizzarle in un tutto organico che diventa creazione, nuova vita, mondo secondario. Si scrive per rileggere dire: “Porca troia, che bello ‘sto pezzo, ma l’ho buttato giù in trance?”, si scrive per dare origine a una storia e dei personaggi che prima non c’erano e ora ci sono e ci saranno per sempre, personaggi che hanno spessore morale e densità fisica. Si scrive, soprattutto, limando e riscrivendo, con fatica certosina, fino a raggiungere il rigo finale, quello cristallino, musicale e dato una volta per sempre, quello che, quando lo rileggi anche a distanza di anni, ti fa vibrare il cuore.
Ora che sto per finire il mio nuovo romanzo, mi chiedo a che serve, chi lo leggerà, a parte mia madre e le care, gentili, compassionevoli, amiche di Facebook? Che ne farò? Ricomincerò con la ricerca svogliata dell’editore serio, poi passerò ai piccoli, sapendo che non avrò distribuzione. Alla fine opterò per la solita piattaforma di autopubblicazione, comoda per chi è timido e spiantato. Dovrò farmi una pubblicità che non sono assolutamente in grado di sostenere, data la fobia sociale. Il romanzo resterà un’immagine di copertina che invecchierà con me, che verrà a noia a tutti e pure alla sottoscritta alla fine.
Che senso ha un nuovo libro in questo in questo magma di scrittura, di testi belli, brutti, orrendi, così così? Non solo ho scoperto che gli scrittori sono milioni, ma che addirittura ci sono in giro tante Patrizie Poli che hanno pubblicato romanzi. Come distinguersi dalle omonime, dai cloni? Come assicurare alle mie innocenti creature, a Yeshua’ a Maria di Migdal, il diritto di vivere negli occhi e nella mente di un lettore?
E ancora. Quello che ho scritto che valore ha? È bello, è mediocre, è mainstream, è letteratura, è poesia, è una boiata, è spazzatura? Perché qualcuno dovrebbe leggere il mio romanzo piuttosto di quello di un altro, di quello di milioni di altri? Ed ha un senso scrivere in questo magma senza più filtro, sapendo di essere una goccia nel mare, di lanciare un messaggio in bottiglia?
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