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2013
di Ettore Scola.
Con Giulio Forges Davanzati, Tommaso Lazotti, Maurizio De Santis, Ernesto D’Argenio.
Se anche Scola si affida al documentario la strada è segnata.
Sembra che il cinema tutto stia volgendosi su sé stesso, si guardi riflesso e ne rappresenti le impressioni, ricalibrando le sue capacità di raccontare. È una cosa che ha sempre fatto, si potrebbe obiettare a ragion veduta, ma mai in una tale mancanza di punti fissi cui guardare, su cui fare sintesi: i percorsi, le intenzioni, divergono, non si prova più a “sintetizzare il caos del mondo” in una forma lunga un film, no, ora la scena cinematografica risponde pienamente a quel caos, lo ricalca. È molto probabilmente un bene, se sarà stato un male lo potremo dire solo tra dieci anni.
In tanto caos Ettore Scola ha guardato nell’unico punto fisso cui ciascuno può appellarsi: la memoria. Racconta Federico Fellini dal suo punto di vista, a distanza, senza mai farne il vero soggetto, tenendolo in osservazione empatica ma oggettiva. Lo posiziona al di là delle sue spalle, al di là di un’ombra, dove resta ammirabile ma inconoscibile. Ha trattato la materia Felliniana come una materia mitologica, onnipresente ma invisibile. Soggetto è invece il mondo che lui ha creato, sin dalle sue vignette, un mondo impazzito tra alti e bassi, un mondo di miseria nobile e nobiltà misera.
Più i ricordi pescano lontani più si tingono di nostalgia, di malinconia, e in un certo senso di bellezza. Il Marc’Aurelio, così spontaneo, vivo, è di una affezione così sincera che anche un occhio giovane, lontano da certe dinamiche e certe storie, la sente, come fosse roba sua.
In sala quante esclamazioni di stupore, di ammirazione, come davanti a vecchie foto di famiglia. È un’opera non nata per creare ma per celebrare il già creato, così bisgona guardarla e così solo si apprezza e gode.
Più i ricordi si fanno vicini più il mondo rappresentato, ed il rappresentabile, cambiano. Se il Marc’Aurelio è finzione pura e riuscita, i ricordi recenti si fanno trasparenti, svelano la costruzione, l’inganno: il Teatro 5 diviene il protagonista, cellula di creazione illusoria, chiusa e capace di tutto.
Ma niente di questo inganno diventa artificiale proprio perché l’artificio è mostrato, svelato, lo spettatore ne è pienamente cosciente e partecipa, in qualche modo, alla realizzazione del film;
come fosse presente dietro la macchina da presa, nelle pause, tra gli addetti ai lavori che ripescano ciascuno dalla propria storia e precisano i ricordi a più voci.
È però vero che il ritratto resta molto incompleto, non c’erano certamente pretese di esaustività, ma gli esordi, con Lattuada, e poi da solo, sono solo accennati, sembrano quasi tralasciati, mentre invece avrebbero caratterizzato meglio il salto temporale agli ultimi anni.
La presenza di Scola la si sente in quanto autore, mai invece diventa il protagonista di quei suoi ricordi. È forse una scelta saggia, atta a non ricadere in sentimentalismi, scelta che, condivisibile da una parte, dall’altra lascia inespresse troppe cose.
Riesce un’opera affascinante, certo non un documentario, perché né documenta in senso stretto, né svela nuovi aspetti sul personaggio Fellini: è un omaggio, e come omaggio è riuscitissimo.
Il finale, prima della carrellata (superflua?) di scene tratte dai film dell’amico Federico, è certamente il momento più riuscito: la commozione, la coralità, di un “popolo” qualunqe, di facce comuni, affrante, tristi, in una mesta fila ordinata che dice grazie al Maestro che ha dato a ciascuno una lente in più attraverso cui guardare la vita. E lui, Federico, che come in un eterno gioco illusorio, scappa dalla morte inseguito da due fiabeschi pennacchi.
È lo stupore circense che ci ha sempre conquistati.