Che strano chiamarsi Federico, di Ettore Scola, non è un (vero) documentario su Federico Fellini. Non è neppure il compendio socio-storico dell’Italia – nell’arco temporale che porta dal ventennio fascista a quello berlusconiano – che il lacrimevole articolo di Eugenio Scalfari, sulle pagine di Repubblica, aveva lasciato intendere. All’inizio è il 1939, la Seconda guerra mondiale è alle porte e un diciannovenne Fellini si lascia alle spalle Rimini diretto a Roma, dove incontrerà presto il successo come autore e vignettista al Marc’Aurelio, principale giornale satirico italiano e fucina di futuri talenti (Steno, Zavattini, Age e Scarpelli), tra i quali, nel ‘47, anche un giovanissimo Ettore Scola. L’efficace racconto degli esordi in redazione viene così replicato una seconda volta negli anni quaranta, inceppando il ritmo narrativo e mostrando quale sarà la strada imboccata dal film: raffigurare Fellini attraverso lo sguardo da regista di Scola, attraverso i ricordi della loro amicizia durata un’intera vita. La forma scelta è un ibrido di fiction che prima inizia in bianco e nero (gli anni al Marc’Aurelio, l’amore per l’avanspettacolo, le prime sceneggiature), e poi vira sul colore in epoche più recenti (in un processo analogo a quello del cinema stesso), quando i due registi passavano nottate a girare in macchina per le strade di Roma, e magari si parlava di sogni o di amori con una prostituta ciarliera – spesso interrotti dai frammenti di memoria in forma di immagini, stralci di interviste, bozzetti e schizzi preparatori dei grandi film dell’epoca d’oro come La strada, Amarcord o Il Casanova – personaggio poi ripreso da Scola ne Il mondo nuovo dell’82 – o ancora La dolce vita, omaggiata da Scola in C’eravamo tanto amati, nella sequenza in cui Fellini interpreta se stesso mentre girava, con Mastroianni e Anita Ekberg, la scena immortale della Fontana di Trevi.
Ad essere onesti, i pochi spezzoni di cinema felliniano inondano con tale forza espressiva il quieto fluire del documentario che forse lo travolgerebbero, se non fossero centellinati fino al frenetico montaggio della girandola nel sottofinale, accompagnate dal motivo centrale di 8 e ½. D’altra parte, Che strano chiamarsi Federico ha il merito di ricordare, soprattutto al pubblico più giovane, che ci fu un tempo in cui l’Italia, un’altra Italia, veniva raccontata nella sua intima verità dalla fantasia visionaria di Federico Fellini, un regista – fra i più grandi di sempre – che dopo Amarcord scelse di girare i suoi ultimi film completamente in studio, quasi a voler palesare le marche della finzione, quasi a voler ribadire, una volta ancora, che se la realtà esteriore nella sua essenza è inconoscibile, solo guardando dentro di sé e ricreando un mondo, il proprio mondo interiore, un artista può realizzare quello che a tutti gli altri è precluso: entrare davvero in contatto con la realtà attraverso l’opera che ha creato, diventando, nell’opera, egli stesso realtà.
Che strano chiamarsi Federico
Italia, 2013
di Ettore Scola
BIM – 93 min